“La lontananza aperta alla misura” Rileggere la Divina Commedia per un “sentimento del tempo”

La vittima del doppio furto per escogitare il titolo e il sottotitolo è Giuseppe Ungaretti. Sarà con tutta probabilità un caso, ma, rievocando titoli e versi di famose poesie ungarettiane, sembra che Dante c’entri sempre. Se qualcuno vorrà tentare l’esperimento con altri autori, potrà spaziare in un campo molto vasto. L’intertestualità e il dialogo a distanza tra i grandi poeti non sono una novità, così come non lo è il fatto che Ungaretti si ispiri spesso all’autore della Divina Commedia. Che ne sarebbe di “M’illumino d’immenso” se non si pensasse a questi due versi come a una versione filtrata del Paradiso e di molto altro (ma non discostiamoci da Dante)? Proviamo a rievocare casualmente alcuni noti spunti ungarettiani: “Sono una creatura”, “La morte si sconta vivendo”, “ho scritto lettere piene d’amore”, “la mia vita mi pare una corolla di tenebre”, “Mi riconosco immagine passeggera presa in un giro immortale”; potrebbero sembrare chiose a celebri versi e passi del poema dantesco, se non ulteriori condensati dello stesso. Sperando che Ungaretti possa perdonarci per l’indebita appropriazione, gli chiediamo indulgenza anche per questo: “la lontananza aperta alla misura” non sarà più trattato come un suo endecasillabo, ma come possibile chiave di lettura di Dante, del poema che lo ha reso celebre fino a noi e del senso che può avere un evento come la celebrazione del centenario; stesso ruolo vogliamo assegnare a “sentimento del tempo”.

Un anno nel quale il poeta che qualcuno decise di definire “sommo” diventa inevitabilmente un jolly, per ogni possibile operazione culturale e spesso commerciale, può rappresentare un’occasione per fare chiarezza e liberarsi di incrostazioni, distorsioni, equivoci, che vogliono nascondere l’oggettiva lontananza nel tempo dell’esperienza dantesca. Non parliamo delle interpretazioni dei testi che sono sempre le benvenute, anche quelle più discutibili o superate, e si susseguiranno finché la poesia avrà vita tra gli uomini. Fa piacere che il mondo intero, Italia in primis, viva un anno in cui ogni giorno almeno un pensiero è per Dante, ma l’ebbrezza da eterogeneità è dietro l’angolo. Dante riesce a far brillare di luce riflessa anche luoghi o comunità che nella Divina Commedia sono stati descritti come orrendi, inquietanti o maledetti. In un delizioso ristorante di Pisa, a pochi passi dalla torre, i proprietari hanno fieramente scritto sulle pareti “Ahi Pisa, vituperio de le genti” (Inferno, XXXIII, 79); c’è poi chi chiama un gelato Inferno (perché non il più fedele “Cocito”?) e chi propone Dante come farmaco per l’anima.

Innanzitutto, cerchiamo di non dimenticare che Dante è stato, tra le altre cose, un grande poeta; sembra ovvio ed evidente, ma giova provare a riflettere sulle ragioni di questa eccellenza. Noi arriviamo a celebrare questo centenario dando per scontata la “sommità”, ma questa sbornia dantesca stride con la scarsa sensibilità che la nostra epoca sembra riservare all’arte poetica, anche se l’ultimo Nobel l’ha vinto una poetessa. In quanti darebbero la stessa risposta alla domanda “Chi è il più grande poeta contemporaneo in Italia / in Europa / nel mondo?”, in quanti sarebbero in grado di rispondere o si mostrerebbero interessati alla questione? Quanto credito daremmo a un’associazione di gourmet i cui membri avessero le papille gustative atrofizzate? Come misuriamo questa lontananza che ci procura il sentimento del tempo?

Dante, a quanto pare, è in grado di far sentire la propria forza poetica anche a chi pensa che oggi la poesia sia in crisi o morta del tutto. Il problema resta come leggerlo in maniera “onesta”, per citare Umberto Saba, pur nella consapevolezza che non potremo del tutto uscire da una nostra visione e che quello che noi sentiamo e pensiamo nei riguardi di Dante ha una storia antica e molto travagliata. Ci si dimentica in fretta che per almeno tre secoli Dante non è stato “sommo” o “padre”, ma fu eclissato dalla moda petrarchesca. Molto di ciò che oggi ci avvince della Divina Commedia ha indotto i letterati del Rinascimento italiano a preferirle il Canzoniere. Certo, rileggendo la letteratura del Cinquecento e del Seicento italiano si scopre che i poeti intelligenti e ispirati non si erano dimenticati di Dante, mentre le mezze cartucce insinuatesi negli angoli delle corti si limitavano a scimmiottare (a volte malissimo) Petrarca. Se Dante è risalito in cima alla lista, lo dobbiamo a Foscolo, Mazzini, Carducci, Pascoli; alla bizzarra trinità Omero-Dante-Shakespeare che entusiasmò i romantici; al Risorgimento come al Fascismo. Tutte queste radici si stanno allontanando e Dante non le ha mai viste. Perciò solo la coscienza della lontananza e del tempo trascorso può aprirsi alla misura, nel senso di modus, cioè a una lettura di Dante non eccessivamente pilotata, deformata, schiacciata o gonfiata; meglio farsi aiutare da autorevoli studiosi, da Auerbach, Curtius e Contini ai più recenti Pasquini, Ossola e Casadei.

Dante è attuale? Nemmeno per sogno. Lui stesso ci mette in guardia dall’attualizzarlo, imponendoci di pensarlo come appartenente a un tempo lontano, antico (“temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico”, Paradiso, XVII, 119-120). Eppure, proprio in nome di una lontananza aperta alla misura, prova a non “perder viver” consegnandoci la sua idea di poesia come continua tensione verso la verità, l’etica, il senso di un’esistenza in cui lui cerca di conciliare la dimensione storica e quella metastorica. Dante si propone di superare continuamente sé stesso e non soltanto le fasi della vita che ci presenta come più buie; scommette sulla bellezza e la chiarezza della parola poetica, ma mette in guardia dal suo stesso fascino. Ascolta Francesca che parla come un eccelso poeta stilnovista (“Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”, Inferno, V, 100) e questo lo inquieta, al punto che richiama scopertamente una famosa sequenza di rime di Cavalcanti, l’amico poeta per il quale l’amore faceva morire la ragione; quando poi la dannata gli rivela che il peccato mortale di lussuria era stato scatenato dalla lettura di un libro di argomento amoroso, Dante sviene paragonandosi a un morto, mentre in occasione del precedente svenimento il paragone era col sonno. Una morte simbolica per dirci che il vero poeta d’amore è quello in grado di liberarsi da ogni ambiguità, da ogni bella parola che induca in tentazione invece di portare diritta al vero. Una scena simile si profila nel Purgatorio, nell’incontro con l’amico musicista Casella (Canto II): quando questo intona una celebre canzone dantesca, tutti, da Virgilio alle anime penitenti, si incantano ad ascoltare; sembra solo un vezzo dettato dalla vanità, ma subito Catone richiama bruscamente le anime distratte, ricordando che non si trovano lì per ascoltare bella musica scritta su bei testi. Anche gli omaggi a Guinizzelli e Arnaut (Purgatorio, XXVI) potrebbero farci dimenticare il fatto, non secondario nella logica della vicenda, che Dante vedrà il Paradiso da vivo e prima di loro, cosa che gli consentirà di compiere nell’arte poetica il salto di qualità che agli illustri colleghi penitenti evidentemente non è riuscito in vita. Quei poeti, a cui Dante si rivela immensamente grato, vengono così consegnati alla lontananza e ad un tempo sentito come trascorso, così come l’adorato Virgilio, che dovrà addirittura ritornare al mondo ipogeo; se l’autore dell’Eneide ha potuto per qualche giorno riveder le stelle, è stato per aiutare Dante, in virtù di un’investitura che parte addirittura da Maria Vergine, figura irrimediabilmente lontana dalla sensibilità del tempo di Virgilio.

Ci sono altre lontananze che Dante nella Divina Commedia si prefigge di misurare attraverso la parola poetica, in primis quella di Dio, la cui giustizia gli appare tanto evidente quanto non completamente comprensibile o esprimibile a causa dei limiti umani; lontananza aperta alla misura diventa anche la terrificante visione di Lucifero, davanti al quale il pellegrino dell’aldilà cerca proprio di dare una dimensione (“e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia”, Inferno, XXXIV, 30-31) alla grandezza del male conficcato al centro del nostro globo; alla fine dell’ultima Cantica, quando tenta di trasmettere ai lettori la visione di Dio, Dante si sente “Qual è ‘l geomètra” (Paradiso, XXXIII, 133) nel tentativo tanto motivante quanto vano di dare una misura all’amore. Ma qui la lontananza sostanziale e spaziale di Dio dall’uomo si rivelerà smisurata e quindi incommensurabile. Dante s’illumina d’immenso e fa tacere la poesia, immergendosi nella fede in quel Dio, tanto lontano, che essendo amore si è aperto alla misura divenendo uomo, nel tempo e al di là del tempo; ma la poesia non tace fino a che non ha tentato di dire l’ultima perfetta e definitiva parola; resta nella mente del lettore una misura bellissima, quel metro antico e inconfondibile che ci ha accompagnati dalla selva al cielo.

Michele Borsatti

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Comments

  • Fabiola Viani

    avril 29, 2021 at 8 h 04 min
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    "il vero poeta d’amore è quello in grado di liberarsi da ogni ambiguità, da ogni bella parola che induca in tentazione invece di portare diritta […] Read More"il vero poeta d’amore è quello in grado di liberarsi da ogni ambiguità, da ogni bella parola che induca in tentazione invece di portare diritta al vero". Articolo in cui ogni passaggio è da meditare. Magnifico ! Read Less

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