Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro, Intervista a Vincenzo Staiano

Scott LaFaro ha sicuramente segnato un’epoca nel modo di suonare il contrabbasso nella musica jazz. Aveva suonato con i più grandi musicisti nei locali e festival più prestigiosi degli Stati Uniti e se la sua giovane vita non fosse stata stroncata per sempre in un tragico incidente la notte del 6 luglio del 1961 chissà dove sarebbe arrivato. Nel saggio « Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro » edito da Arcana – con la coloratissima copertina dell’artista calabrese Cesare Berlingeri – viene tracciato il ricco e breve percorso artistico con una particolare attenzione al rapporto che Scott intratteneva con i tanti artisti suoi contemporanei. Ringraziamo l’autore Vincenzo Staiano, direttore artistico del festival « Rumori Mediterranei » per averci concesso questa bella intervista.

 

 

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro e quali sono state le difficoltà (ammesso che ce ne siano state)?

L’idea è nata dopo aver letto il volume “Jade Visions. The life and music of Scott LaFaro”, la biografia di Scott scritta dalla sorella Helene LaFaro Fernandez. Era il 2011 e la direzione del Festival Internazionale del Jazz Rumori Mediterranei decise di dedicare un omaggio a Scott dopo che erano state scoperte le sue origini calabresi. Di Scott si sapeva poco o niente in Italia in quel periodo e fu la stessa direzione del Festival a convincere una rivista specializzata italiana a pubblicare del materiale dedicato al giovane contrabbassista scomparso prematuramente. Resta tuttora l’unico documento organico su Scott pubblicato in Italia prima dell’uscita del mio libro, a parte un mio lungo articolo comparso su una rivista online contenente una serie di informazioni inedite sulla sua famiglia. Me le aveva fornite Helene.

Comunque, la scintilla che mi ha spinto a scrivere il libro è stato scoprire che Scott e Bill Evans (il leader di uno dei più celebri trio della storia del jazz nel quale il giovane contrabbassista ha militato) tra di loro parlavano molto del flusso di coscienza di James Joyce, associando questa tecnica narrativa alla musica improvvisata. Lo avevo appreso da Helene e per me era un aspetto molto intrigante perché erano anni che sostenevo un’associazione del genere. Purtroppo, Helene non mi ha saputo dare altre informazioni a riguardo e così mi sono messo alla ricerca delle fonti e delle prove dell’esistenza di un tale nesso. Le difficoltà che ho incontrato sono state tante e a un certo punto ho mollato perché non riuscivo a trovare quello che cercavo, malgrado avessi consultato molte pubblicazioni statunitensi e tanto materiale reperibile su Internet. Dopo alcuni anni, però, ho ripreso le ricerche e ho trovato le informazioni che mi consentivano di spiegare in modo attendibile il rapporto tra quella particolare tecnica narrativa e un certo tipo di esecuzione musicale. Ovviamente quello era solo uno dei tanti temi che intendevo trattare e restava il problema di come impostare il mio lavoro. La consapevolezza che non aveva senso produrre un’altra biografia di Scott, perché lo aveva già fatto in modo adeguato la sorella Helene, mi ha spinto poi a esplorare sentieri sui quali nessuno in Italia e negli USA aveva camminato prima di me. E’ così è nata l’idea di un ritratto di Scott incentrato sulla sua genialità e sulla sua collaborazione con alcuni grandi della storia della musica improvvisata.

Se dovesse usare solo poche parole, come definirebbe Scott LaFaro?

Un grande talento ossessionato dalla ricerca della perfezione (Scott era capace di provare anche più di dodici ore al giorno).

Molte delle testimonianze raccolte nel libro Le sono state fornite da Hélène, sorella di Scott e autrice di « Jade Vision. The life and music of Scott LaFaro”. Ci racconta com’è riuscito ad entrare in contatto con lei e se sia stato semplice farle rievocare ricordi di famiglia?

Sono entrato in contatto con lei in occasione dell’omaggio a Scott nel 2011. Avevo il compito di invitarla a venire in Italia per partecipare al Festival ed essere protagonista dell’omaggio al fratello. Si pensava di assegnarle la cittadinanza onoraria, di intitolare qualcosa a Scott e di farla partecipare a un convegno sul contributo dato dagli italiani alla nascita e allo sviluppo del jazz (che ebbe luogo). L’idea di un lungo viaggio dalla California in Calabria inibirono, però, la sua partecipazione. Fu allora, in ogni caso, che tra noi cominciò uno scambio di email che è durato poi molti anni. Al centro della mia attenzione c’era la passione di Scott per la letteratura, mentre quella di Helene era incentrata sul tentativo di trovare il luogo di nascita dei nonni Lofaro e di scoprire le ragioni del talento musicale del padre e del fratello. La passione per la musica, infatti, risaliva ai Lofaro. Questo era il cognome vero dei parenti calabresi (e non LaFaro) ed era documentato nel passaporto del nonno, che certificava che era Siderno, un paese della provincia di Reggio Calabria, il luogo dal quale era partito dall’Italia. Helene mi ha riferito anche che suo nonno Rocco parlava sempre del paese della Locride ai propri familiari. Basandomi sulla sua convinzione della nascita dei nonni a Siderno ho cercato l’atto di nascita dappertutto e per anni, ma senza alcun risultato. Alla fine, però, l’ho trovato. Certifica che Rocco Lofaro è nato nel 1863 a Cannitello, allora un borgo marinaro di circa 3000 abitanti della provincia di Reggio Calabria, a un centinaio di chilometri da Siderno. Questa mia scoperta, anche se decreta definitivamente l’origine italiana di Scott ha, comunque, un’importanza relativa perché è Siderno la località che deve essere messa al centro dell’attenzione. Comunque, non è stato facile avere delle informazioni da lei perché nell’ultimo periodo ha avuto dei problemi e ha sofferto molto per la scomparsa della sorella Linda. Resta, comunque, un mistero la trasformazione del cognome Lofaro in LaFaro. Helene mi ha detto che era stato anche americanizzato in La Farr ed è probabilmente dovuta a un errore di trascrizione, ma io ritengo che ci siano altre ragioni che forse documenterò in futuro.

Il capitolo 11 del Suo libro è dedicato alla famiglia di Scott, ai nonni italiani e al percorso che dalla Calabria li aveva portati in America in cerca di fortuna. C’è poi il padre Joe Lafaro, enfant prodige della musica e sicuramente prima fonte d’ispirazione per Scott. Possiamo dire che la loro storia è un’ulteriore prova del contributo che gli Italiani emigrati all’estero hanno dato alla musica jazz?

Quella dei nonni di Scott è una storia di emigrazione all’insegna del successo. Considerando la mia scoperta della nascita a Cannitello e altri dati fornitimi da Helene bisogna propendere per l’ipotesi che nonno Rocco si sia trasferito giovanissimo a Siderno e sia vissuto là per non meno di una decina d’anni, prima di emigrare negli Usa con la moglie. Non avevano figli quando sono partiti. Perché Siderno è importante? Perché riesce a dare una chiave di lettura del rapporto dei Lofaro/LaFaro con la musica. Helene mi ha raccontato che suo nonno Rocco era un grande appassionato di lirica, che ascoltava spesso, e aveva trasmesso questo suo interesse ai suoi familiari. Non esistendo ancora i grammofoni, è lecito supporre che nonno Rocco sia entrato in contatto con il “Bel canto” grazie all’attività bandistica esistente a Siderno nella seconda metà del XIX secolo, prima che emigrasse negli Stati Uniti. E’ ormai cosa nota che molti musicisti italo-americani avevano delle esperienze bandistiche quando hanno lasciato l’Italia e sono stati arruolati nelle prime band jazzistiche. Non è da escludere che nonno Rocco sapesse suonare e conoscesse la musica. Come spiegare altrimenti il fatto che Joe, il papà di Scott, a tre anni sapesse suonare il mandolino e a sei il violino ed è diventato poi un grande musicista? Infatti, dopo essersi diplomato in violino al college di Ithaca negli anni venti si è trasferito a New York dove ha suonato con i più celebri jazzisti dell’epoca. Sono da ricercare in queste vicende, quindi, a mio parere, le radici musicali dei LaFaro (in particolare di Joe che ha influenzato il figlio) e va cercata qui l’origine dell’approccio melodico che Scott ha introdotto nel modo di suonare il contrabbasso, rivoluzionandolo.

Attraverso la lettura del suo libro ho trovato delle spiegazioni sul titolo secondo me molto intriganti, anche perché c’è di mezzo Miles Davis che Scott apprezzava tanto. Vuole spiegarci questa sua scelta?

“Solid”, il titolo del libro, è stato ispirato da un messaggio inviato da Miles Davis all’amico Scott. I due si conoscevano perché avevano spesso suonato negli stessi locali, ma mai insieme nella stessa formazione. Si può ipotizzare solo qualche sporadica jam-session. Scott ha più volte dichiarato che Davis era uno dei suoi musicisti preferiti. Davis, da parte sua lo voleva nella sua band che non era “solida” senza di Scott, come il celebre trombettista stesso dichiarò in un biglietto di saluti indirizzato al giovane contrabbassista poco prima dell’incidente.
Il sottotitolo “Quel diavolo di Scott LaFaro”, invece, è tratto da un commento di un critico francese contenuto in un saggio scritto alcuni anni dopo la sua scomparsa: “Hanno occhi per vedere, hanno orecchie per sentire? Sono ciechi, sono sordi? E nessuno fino ad oggi, nemmeno Gary Peacock, Charlie Haden, Eddie Gomez, Stve Swallow o Chuck Israel è riuscito a competere con questo diavolo di Scott LaFaro”. Si tratta del saggio di Jean-Pierre Binchet “Le Phare LaFaro” pubblicato nel 1968 dalla rivista Jazz Magazine. E’ uno degli studi più belli e completi sulla sua figura che ho trovato durante le mie ricerche. Ho scoperto anche che Scott in Francia era molto popolare in ambito jazzistico.

Basandosi sulle considerazioni di Percy Heath, il contrabbassista del Modern Jazz Quartet, Lei scrive che Scott LaFaro ebbe il merito di aver « modificato in modo radicale la tecnica dello strumento (in chiave melodica più che in chiave ritmica) ». A che cosa si riferisce esattamente?

Nel 1956 Scott aveva appena vent’anni e solo da due suonava il contrabbasso quando Percy Heath, uno dei più prestigiosi contrabbassisti del mondo, attratto dal suo arpeggio veloce mentre si esercitava in una camera del Wolverine Hotel di Detroit, entrò nella stanza e, scherzando, suggerì al giovane di cambiare strumento e di optare per la chitarra. Scott era in tour con l’orchestra di Buddy Morrow e Heath con il MJQ. Credo che questo episodio scherzoso possa dare una chiave di lettura della rivoluzione fatta da Scott nel modo di suonare il contrabbasso, solitamente uno strumento ritmico, mentre la chitarra è uno strumento melodico. Questa sua tendenza a voler suonare il contrabbasso come una chitarra è stata confermata da Pettinger, uno dei biografi di Bill Evans, che ha riferito che Scott soleva abbassare l’altezza del ponte per portare le corde più vicine alla tastiera. Ciò, secondo l’amico e mentore Herb Geller, gli consentiva di velocizzare il modo di suonare rendendo la tecnica dello strumento simile a quello di una chitarra. Non bisogna dimenticare che Scott, prima di passare al contrabbasso a causa di un incidente a un labbro, aveva studiato il clarinetto basso, il sassofono tenore e il flicorno baritono, tre strumenti melodici, e bisogna tenere conto del fatto che suo padre Joe era un violinista, altro strumento melodico. Il clarinettista italo-americano Buddy De Franco ha riferito che Scott usava un saggio sul clarinetto di H. Klose per facilitare la velocità delle dita, mentre il suo compagno di stanza Charlie Haden ha raccontato che Scott si esercitava usando gli assoli del sassofonista Sonny Rollins. Nel mio libro ho riportato anche un rumor poco conosciuto che circolava tra i suoi amici: “Scott si offriva spesso come sassofonista, ma nessuno lo prendeva sul serio e la cosa lo infastidiva”. Il rumor mi è stato riferito dal celebre contrabbassista Giovanni Tommaso, che, a sua volta, lo aveva appreso dal pianista americano Roy Santisi. La sua propensione melodica, probabilmente, è legata anche alle sue origini, come ha spiegato anche l’autorevole critico canadese Geene Lees: “Il magnifico modo di suonare melodico e lirico di Scott LaFaro mi colpisce come una fragranza tutta italiana….”. Lo ha sottolineato in un lungo e approfondito articolo dedicato al giovane contrabbassista.

Un’ultima domanda. Scott Lafaro ha suonato con molti grandi musicisti anche se è noto soprattutto per aver fatto parte di un famoso trio assieme al pianista Bill Evans e al batterista Paul Motian. Un trio che si esibiva spesso al Village Vanguard di New Jork. Pochi sanno però che aveva suonato anche con Ornette Coleman, oggi conosciuto per essere stato uno dei più grandi innovatori della storia della musica jazz ma non particolarmente apprezzato agli esordi della sua carriera, come ha giustamente evidenziato Lei in alcuni capitoli del libro. Come spiega questo connubio tra Scott e musicisti così diversi?

La storia della collaborazione di Scott con questi due grandi musicisti è molto intrigante e costituisce una buona quota di valore aggiunto posseduta dal mio libro rispetto ad altre pubblicazioni sul giovane contrabbassista. E’ noto che, sul piano umano, Scott non aveva un rapporto idilliaco con Bill Evans. C’erano molte frizioni tra i due dovute all’uso di stupefacenti da parte di quest’ultimo. La loro intesa sul piano musicale, invece, ha dato vita ad alcune tra le pagine più belle della storia del jazz. Il catalizzatore del loro talento è stato l’interplay, un approccio performativo che ha caratterizzato molto la loro produzione discografica e concertistica. Tra i due c’era molta complicità sul piano musicale e culturale e condividevano una grande passione per la letteratura e un certo interesse per la filosofia Zen. Scott, nell’unica intervista rilasciata a una rivista specializzata, ha dichiarato che loro due non si consideravano musicisti di jazz e che apprezzavano molto la musica classica e contemporanea. Il rapporto di Scott con Coleman, invece, è stato diverso ed è stato circoscritto nel tempo. Coleman dava a Scott molta libertà esecutiva, ma c’è una circostanza che vale la pena commentare. Nella stessa intervista menzionata prima, Scott ha dichiarato che, anche se stimava Ornette Coleman e aveva già suonato con lui a Los Angeles, “non avrebbe potuto più suonare con lui perché non rispettava le forme”. E’ stata senza dubbio un’affermazione strana. Perché l’ha fatta? Nel libro ho ipotizzato che questa riserva da parte di Scott fosse stata suggerita dalla scarsa considerazione che Bill Evans aveva per il sassofonista texano che, del resto, era spesso attaccato dai suoi colleghi e da molti critici per il suo approccio innovativo-radicale. Alla fine degli anni cinquanta, però, Coleman aveva anche degli estimatori autorevoli che lo convinsero a trasferirsi a New York. Si trattava di personaggi che stravedevano anche per Scott. Infatti, solo un paio di mesi dopo l’intervista fu ingaggiato dal celebre sassofonista per un tour che durò un paio di mesi e alla fine andarono in studio per registrare, insieme ad altri, il rivoluzionario album intitolato “Free Jazz” (al quale si aggiunse, subito dopo, il secondo intitolato “Ornette!”). Questi due album e gli altri due registrati al Village Vanguarde con Bill Evans costituiscono quattro capolavori della storia della musica, non solo jazz.

Forse una spiegazione succinta di questo connubio tra il giovane contrabbassista e musicisti così diversi l’ha data pure un autorevole critico di recente: “Scott non era né “bopper”, né “hard-bopper”, nè “New Thing, era solo Scott”. Per lui non esistevano limiti performativi. In un certo senso, semplificando, si potrebbe affermare che Scott era un “uomo per tutte le stagioni” che sapeva calarsi con facilità in qualsiasi progetto venisse coinvolto.

Intervista Stefania Graziano

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