Pier Paolo Pasolini giovane drammaturgo e regista teatrale

Relativamente recente è la scoperta di un Pier Paolo Pasolini giovane drammaturgo e regista che si cimenta con la stesura e la messa in scena di pièces teatrali prima ancora di dare alle stampe la famosa raccolta delle Poesie a Casarsa in lingua friulana che uscì nel 1942 e fu subito recensita dal grande Gianfranco Contini sul Corriere del Ticino del 24 aprile 1943.

I testi in questione, parzialmente raccolti in volume dal 2001, sono: La sua gloria del 1938, composto da un Pasolini appena sedicenne per i Ludi Juveniles delle scuole superiori istituiti da Bottai; Edipo all’alba completato nel 1942, secondo una lettera di Pasolini a Luciano Serra; I Turcs tal Friùl del 1944, che rappresenta il pendant drammaturgico della sperimentazione in lingua friulana effettuata con le Poesie a Casarsa; I fanciulli e gli elfi, messo in scena nel 1945 secondo il racconto che Pasolini ne fa nei Quaderni Rossi e in Atti impuri; Il Cappellano, redatto fra il 1945 e il 1947 e spedito a Gianfranco Contini per un parere il 23 luglio del 1947 con la speranza di “farlo avere a qualche uomo di teatro (ma a chi?)”; La poesia o la gioia del 1947, incentrato sul rapporto padre-figlio. Ci sarebbe poi un altro testo friulano intitolato La Morteana che sicuramente Pasolini avrebbe portato a termine e che però è andato perduto.

È nota la mitologia pasoliniana relativa alla lettura e alla scrittura della prima poesia come atto d’amore del settenne Pier Paolo nei confronti della madre: un atto che sarà poi reiterato in tutta la produzione lirica pasoliniana che potrebbe definirsi come un omaggio a Susanna Colussi Pasolini e una disperata manifestazione del “mostruoso” amore del figlio nei suoi confronti. Meno noto è l’insorgere di una vocazione alla scrittura teatrale che si può ricostruire mettendo insieme alcuni accenni che emergono dalle lettere agli amici, dai diari di Atti Impuri e dalle testimonianze a posteriori che lo stesso Pasolini dà del periodo friulano in interviste e saggi della maturità. Si tratta però di un’esperienza di enorme importanza sia sul piano estetico che su quello personale perché, come vedremo, il teatro è il luogo in cui Pasolini mette in scena la sua identità di genere allestendo la performance del proprio desiderio represso. Lo fa utilizzando in parte la lingua materna, il friulano, che gli consente di esprimere simultaneamente la consueta adorazione edipica per Susanna e la sua omoerotia.

L’avventura di Pasolini nel mondo della regia teatrale si fa particolarmente intensa nel periodo 1943-1947, gli anni in cui si trasferisce a Casarsa della Delizia, paese natio di Susanna, e poi a Versuta. Nico Naldini, cugino di Pier Paolo, ricorda una recita improvvisata in friulano dal titolo Carneval e Quaresima con l’amico casarsese Cesare Bortotto e la violinista slovena Pina Kalč “su un canovaccio confezionato in pochi minuti”, nella quale Pasolini recita la parte del Carnevale a casa della madre. Era l’ultima sera di carnevale del 1943. L’anno successivo, sempre secondo la testimonianza di Naldini, l’impegno di Pier Paolo nell’allestimento di spettacoli teatrali a Casarsa si fa più organizzato e fattivo.

Nel 1944 Pasolini scrive I Turcs tal Friùl, “forse la miglior cosa che io abbia scritto in friulano”, e per sfuggire all’incalzare dei bombardamenti aerei si trasferisce con Susanna a Versuta dove mette su una piccola scuola. Nel 1945 incomincia le prove per un’altra rappresentazione, dal titolo I fanciulli e gli elfi, che metterà in scena alla fine della guerra. Gli attori sono gli allievi della scuola e Pasolini stesso nel ruolo dell’Orco. Pina Kalč collabora ancora sul versante musicale anche se, come ricorda lo scrittore nelle memorie di Atti impuri, ben presto verrà a conoscenza della segreta passione di Pier Paolo per i fanciulli della scuola e si mostrerà restia a fornire ancora il suo appoggio all’impresa. Il coinvolgimento del poeta e drammaturgo si configura come un’esperienza totale, sia dal punto di vista intellettuale che da quello sentimentale e psicologico, visto che l’allestimento de I fanciulli e gli elfi, oltre a richiedere l’impegno di Pasolini sul versante artistico e tecnico, diviene anche il luogo di sublimazione ed esaltazione del suo desiderio omoerotico represso. Racconta Pasolini:

Dopo cinque o sei mesi, la favola era pronta (i ragazzi erano davvero straordinari); si era in Giugno, la guerra era cioè terminata, e il Teatrino dell’Asilo, a C[asarsa], era incolume. Poichè oltre che l’attore, il regista e il produttore io dovetti fare anche il tecnico e l’operaio, non fu davvero un facile compito il mio, tanto più che lo spettacolo era completato da un coro di giovanotti di C[asarsa], che, perfettamente istruiti da P., avrebbero dovuto cantare villotte friulane. Finalmente tutto fu pronto; lo spettacolo fu dato e i bambini furono felici per il successo […] Gli Elfi avevano il torace nudo e i fianchi avvolti da un’abbondante veste di rami di salice. P. mi aiutava, ma per il suo carattere meticoloso mi era a volte di impaccio: mi osservò, ad ogni modo, mentre dipingevo le labbra di T…

A tale interpretazione del teatro come esperienza totale bisogna aggiungere il fatto che gli altri drammi scritti in questo periodo presentano una fortissima componente autobiografica che si esprime anche nell’uso della lingua friulana. Nel rievocare la sua scelta, nell’introduzione alla Poesia dialettale del Novecento del 1952, Pasolini parla di un “regresso” del poeta alla lingua di un “parlante presumibilmente più puro, più felice”, il contadino del Friuli, del quale cerca di imitare il linguaggio non solo per ragioni estetiche ma anche, e soprattutto, per quella che più tardi definirà come ispirazione “sensuale-stilistica”:

Il “regresso”, questa essenziale vocazione del dialettale, non doveva forse compiersi dentro il dialetto […] ma essere causato da ragioni più complesse, sia all’interno che all’esterno: compiersi da una lingua (l’italiano) a un’altra lingua (il friulano) divenuta oggetto di accorata nostalgia, sensuale in origine (in tutta l’estensione e la profondità dell’attributo) ma coincidente poi con la nostalgia di chi viva – e lo sappia – in una civiltà giunta a una sua crisi linguistica, al desolato, e violento, “je ne sais plus parler” rimbaudiano.[…] egli si trovava in presenza di una lingua da cui era distinto: una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente: il suo regresso da una lingua a un’altra – anteriore e infinitamente più pura – era un regresso lungo i gradi dell’essere.

Dentro questa descrizione di intenti ci sono tutti gli ingredienti della scelta dialettale pasoliniana negli anni di Casarsa: la tensione edipica segnalata dall’attrazione sensuale verso la lingua materna; il desiderio omoerotico vissuto ancora in maniera conflittuale, contemplato con nostalgia e senso del peccato, “torbidamente e candidamente”; e infine il senso di una crisi del linguaggio poetico, con la consapevolezza della sua ineffabilità e la conseguente chiusura ermetica segnalata dalla citazione di Rimbaud.

Quello che però non viene menzionato esplicitamente è che l’attrazione verso i “parlanti” e la conoscenza del dialetto vivo si esplicitò soprattutto nell’attività teatrale. Non possiamo fare a meno di ritornare alle reminiscenze di Atti impuri e ai sei mesi di prove che precedettero la messa in scena de I fanciulli e gli elfi la cui rappresentazione viene rievocata nel passo citato più sopra con immagini di allusa e struggente sensualità: dal “torace nudo”, e dai fianchi cinti da “rami di salice” dei fanciulli friulani che richiamano alla memoria paradisi adamitici, alla concentrazione del regista mentre dipinge le labbra del suo amato e viene colto in flagrante da Pina che così comprende il segreto della sua “diversità”.

Se è vero, come afferma Derek Duncan, che il Friuli fu il luogo nascosto, o closet, dell’omosessualità pasoliniana e che uscire dal Friuli significò per Pasolini anche accettare e rivelare pubblicamente la propria identità di genere, il teatro di prove de I fanciulli e gli elfi è appunto uno degli spazi privilegiati del closet. In esso riecheggiano i silenzi, il “non detto” che circonda l’omosessualità pasoliniana, ma risuona anche la dolce parlata dei ragazzi friulani che recitano e cantano negli spettacolini di Versuta.

La drammatizzazione dei propri conflitti interiori che Pasolini mette in scena nella favola teatrale de I fanciulli e gli elfi, attraverso la rappresentazione attoriale di se stesso come Orco e del suo amato come uno degli Elfi che assicurerà il trionfo del bene e la salvezza dei fanciulli, non solo serve a disegnare l’architettura del luogo non più o non solo segreto nel quale Pasolini può incanalare la costruzione e l’espressione della sua identità di genere —il teatro— ma serve anche a consacrare l’uso del friulano, esteticamente e non solo privatamente, come linguaggio con il quale l’attore Pasolini comunica il proprio amore per il mondo.

Se è vero che, come afferma Stefano Casi, il teatro fornisce a Pasolini un’opportunità di “confessione e trasfigurazione della propria vita sul doppio terreno del privato e del pubblico”, è interessante notare come ne I Turcs Tal Friùl Pasolini chiami a testimone la storia familiare e regionale del Friuli, closet della sua identità di genere, perché faccia da scenario alla fine della sua ambivalenza nei confronti di un’identità sdoppiata e franta. Ed è ovviamente sintomatico che la lingua scelta per la drammatizzazione di questo conflitto sia il friulano, la lingua dei parlanti, nei confronti dei quali Pasolini si sente “torbidamente e candidamente” attratto. Il friulano, insomma, come linguaggio del closet, rappresenta un travestimento necessario, quasi una maschera teatrale che il poeta adotta per esprimere pubblicamente la propria sessualità.

Questa ipotesi è confermata da un articolo dell’ottobre 1947 sulla poesia dialettale nel quale lo scrittore afferma che scrivere in dialetto “risponde a un bisogno profondo di diversità”. E “diverso” e “diversità” sono, come afferma ancora Duncan, termini chiave nella scrittura pasoliniana in riferimento alla sua sessualità: “Pasolini non amò mai il termine ‘omoessualità’ e, infatti, per tutta la vita preferì il termine ‘diverso’, o ‘diversità’, per indicare questa sua generica e infinita alterità rispetto alla società borghese”.

“Diversità” è quindi il grande contenitore semantico nel quale Pasolini inscrive la propria omoerotia come fatto antiborghese accanto alla “diversità” antiborghese dei contadini friulani e dei ragazzi di borgata romani. Questa “diversità” ha come comune denominatore un’identità linguistica, il friulano e il romano delle borgate, attraverso la quale l’identità omoerotica di Pasolini diventa integrata ed esce allo scoperto come una sorta di travestimento performativo o maschera teatrale.

Di lì a poco, lo scandalo della sagra di Ramuscello nell’autunno del 1949 costringerà il giovane Pier Paolo ad abbandonare il grembo materno della provincia friulana per cimentarsi nell’arena sociale e intellettuale della capitale, mettendo in campo il suo talento di poeta, narratore, scrittore e poi regista cinematografico e mettendo tra parentesi, almeno in apparenza, il suo lavoro di drammaturgo e regista teatrale che riprenderà nel 1966.

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