Il Rhegium Julii, un Leone tra Reggio e Messina

Il martedì era il giorno più atteso della settimana, quello dedicato al Dio della guerra, nel quale eri certo che avresti combattuto la tua personale battaglia contro i draghi, ed eri certo che avresti vinto, perché le tue poesie erano l’ariete che avrebbe sfondato il muro dell’indifferenza.

Il Cenacolo dei Poeti era un appuntamento fisso: dalle 18 alle 19:30, senza possibilità di sforare, perché le parole non devono mai essere troppe, non devono annoiare, ma lasciare il desiderio nella dimensione feconda dell’inappagamento. Giuseppe ti avrebbe strappato il microfono dalle mani se fosse stato necessario, perché c’era un limite, e andava rispettato.

Abbracciato dai dipinti di Crista, Esposito, Mintom, Baronetto, Argiroffi, Casile; dalle foto di Leonida Repaci, Atahualpa Yupanqui, Alda Merini: da scaffali pieni di libri parlanti e vivi, eri sicuro che le munizioni per combattere la tua battaglia non ti sarebbero mai mancate. Poi le voci di Iolanda, Paolina, Mimma, Alfonso, i fratelli Nino e Stefano, Pino, erano una sinfonia di parole tessute con cura per formare uno scudo contro l’orrore dei morti ammazzati e degli attentati che avevano desertificato la città. In un’epoca in cui la parola era stata soffocata dal dolore, nella stanzetta di via Salazar e poi in quella di via Pentimele vecchia, i poeti dello Stretto innalzavano torri e minareti, campanili e fari, sui quali salire per cantare la vita, il sole, la luce e la giovinezza.

In quella stanza affacciata su Piazza del Popolo si praticava la ricerca senza nemmeno saperlo. In quella stanza creata da un folle visionario, padre putativo di tutti noi, si partiva verso Oriente e si ritornava a casa carichi di libri. Salivi sul motorino con la testa tra le azzurre Sorgenti dell’Acheronte o tra le scalinate di Gilda, la poetessa dell’amore, che trattava Wystan Hugh Auden come uno studente ginnasiale, ma geniale, e non sapevi mai dove metterli tutti quei volumi che prima di frequentare quel posto non osavi nemmeno sperare di poter possedere.

E c’erano tutti i libri dei tuoi sogni, tutte le poesie e le voci del mondo sul tuo comodino e ti veniva chiesto di parlarne insieme ad altri giovani sconclusionati e variopinti, tutti alla ricerca della stessa cosa e ognuno a modo suo: il senso di una vita, prima di via Salazar, solitaria, silenziosa, incompresa, incerta, ma che all’improvviso era piena, condivisibile e reale. Avevi trovato una piccola schiera di camminatori con i quali dialogare, litigare, progettare, amare e leggere il mondo. Non c’erano regole da seguire o moduli da riempire e nessuno ti chiedeva il curriculum per farne parte, bastava un solo requisito: amare i libri.

Si faceva sempre tardi sul marciapiede quando il custode delle lettere, Giovannino Caridi, il factotum del circolo, chiudeva la porta di via Salazar. Non volevamo tornare a casa, perché lì ci sentivamo a casa più che in qualunque altro posto; perché il Rhegium Julii era l’esempio evidente che un sogno può diventare realtà, che l’utopia è un sentiero, non un luogo inesistente e che un solo uomo, Peppe Casile, con la sua ostinata follia, aveva tracciato per noi, partendo da uno scantinato. E con lui a condividere la follia c’erano Carlo, Melina, Angela, Pino il poeta e Pino l’architetto, Franco e Lina, e la lista sarebbe lunga…

Alcuni di loro erano anche scrittori, altri solo lettori e viaggiatori. Un universo eterogeneo, colmo di asteroidi e comete, pianeti e satelliti; c’erano anche stelle comete e con loro ti scontravi, ma soprattutto ti incontravi, dopo aver capito che con la loro eleganza avevano saputo sopportare la tua arroganza giovanile e supportare il tuo grezzo talento.

Noi il nostro altrove lo avevamo trovato lì. In una città senza teatri, senza cinema, senza piazze, in una città senza musica e senza libri, noi avevamo il nostro porto sicuro, la nostra Cattedrale gotica dalle alte guglie, sulle quali salire e toccare il cielo con un dito; e tra le voci che noi ascoltavamo c’era anche il professore Falcomatà, che lì si era formato e lì con gli altri aveva affinato la sua idea di città gentile.

Il Rhegium Julii in quegli anni era un punto di approdo ambito dalle voci più rappresentative della cultura nazionale e internazionale, e non stiamo esagerando: Peppe dialogava col mondo, ma non lo faceva da solo: a quei simposi invitava anche noi. Dietro le quinte delle manifestazioni pubbliche, alle quali presenziavano politici e intellettuali, ci stavamo noi, ragazzetti colmi di meraviglia. A toccare e stringere le mani dei mostri sacri della letteratura e della critica letteraria italiana tra i quali Elena Clementelli e Walter Mauro. Quando arrivava il premio Nobel in riva allo Stretto per noi era un delirio: “Ragazzi, in autunno verrà Seamus Heaney…” “Sta scherzando, presidente?”… seguiva un laconico: “No!”, come se fosse la cosa più normale del mondo. L’Irlanda a casa tua, il paese dei tuoi sogni e la musica delle poesie che leggevi in solitudine in camera tua, guardando il poster dell’isola verde attaccato alla parete… Il tuo poeta preferito… lo avresti incontrato di persona e avresti viaggiato con lui sulla nave diretta a Messina, verso l’Università di lingue. Perché il Rhegium univa Reggio e Messina in una dimensione ideale in cui si navigava e si volava da una sponda all’altra. Il regno della parola era un’isola felice, reale, sulla quale il signore delle mosche era sconfitto per sempre.

Il presidente emerito del Rhegium Julii Giuseppe Casile (di recente scomparso) durante l’incontro al Quirinale con il presidente Napolitano e il direttivo del Circolo

Un passo e un sorriso, quattro chiacchiere con Luca Desiato, Raffaele Nigro, Giuseppe Amoroso, Corrado Calabrò, Giovannino Russo, Pino Caridi, Maria Argiroffi… e molti altri. E quando arrivava novembre, per noi era estate, era la festa, il mese più bello dell’anno, perché la città veniva invasa e pervasa, non dall’esercito in divisa, al quale ci aveva abituato uno stato assente, ma da una schiera di poeti, romanzieri, saggisti, intellettuali. Il premio Edito del Rhegium Julii era la nostra Cannes, il nostro festival del cinema, il nostro Campiello. Le scuole di tutta la provincia, dalla costa Ionica a quella tirrenica, incontravano gli autori accompagnati da noi, dopo aver eletto i loro libri. Era un sogno: Roma, Milano, New York, Parigi, Madrid, Londra, attraverso la voce e le opere dei loro più importanti scrittori e poeti dialogavano con gli studenti di Sant’Eufemia d’Aspromonte, di Bovalino, di Bagnara Calabra, di Bova… della periferia del mondo. Tutti i giovani erano coinvolti. E quando arrivava la sera di sabato di quella due giorni di festa, a novembre, il teatro, finalmente, si riempiva e dopo la premiazione c’era la possibilità di ascoltare un concerto di musica classica o di assistere al balletto dell’etoile della Scala di Milano… a Reggio Calabria, dove, sì aveva cantato anche la Callas, negli anni Cinquanta, ma che da quarant’anni era una città inghiottita dal nulla, quello che avevi imparato a conoscere leggendo La storia infinita di Michael Ende.

Il nome della principessa bambina, noi, lo gridavamo ogni giorno dell’anno, sotto l’ala protettrice del Leone, il nostro simbolo, e il nulla lo tenevamo sotto controllo, nonostante fosse sempre in agguato e pronto ad inghiottirci.

Non dovevamo fare altro che guardare e ascoltare tutta quella bellezza, negli occhi di Rosetta Loy o di Dacia Maraini, di Adele Cambria o di Claudio Magris, di Rodolfo Chirico o di Pasquino Crupi, nei silenzi profondi di Francesco Bimonti o di Giorgio Pressburgher… Attraverso le loro parole, abbiamo conosciuto l’Italia, il mondo, ma soprattutto noi stessi.

La verità è che in quegli anni era sempre estate: il sole ci riscaldava e le istituzioni rispettavano la nostra voce. La città l’ascoltava, soprattutto tra luglio e agosto, quando in uno degli stabilimenti balneari più in voga, che durante il giorno era meta di bagnanti distratti, il martedì sera, una delle piste da ballo della discoteca più frequentata della città si trasformava in un teatro all’aperto, in cui trecento persone, forse anche di più, si riunivano per dissetarsi con l’acqua limpida della letteratura. I Caffè letterari erano ormai l’evento più atteso dell’estate. E noi giovani eravamo i protagonisti, gli accompagnatori, i contenitori del futuro di una città in terapia intensiva, che noi tenevamo in vita con la nostra forza, col nostro desiderio di sconfiggere quella opprimente cappa di morte, che dalle periferie nord e sud teneva in scacco il sorriso e il desiderio.

Noi andavamo ovunque a leggere e a fare chiasso, dappertutto. In una città che aveva scelto la rassegnazione o l’indifferenza, c’eravamo noi, con la nostra folle esuberanza. Noi, che avevamo sempre un libro di poesie nella borsa a tracolla.

Quando arrivava il periodo del Premio edito per scrittori esordienti dedicato a Fortunato Seminara, toccava a noi selezionare i tre vincitori su decine di romanzi che tutte le case editrici ci inviavano. Era una corsa frenetica nello stadio della lettura. Occorreva leggere tra i quaranta e i cinquanta romanzi in due mesi, una follia, con scambi di libri agli incroci delle strade, anche a mezzanotte. “A me mancano tre romanzi e non ce la farò mai in due giorni”, ma alla fine ce la facevamo sempre. Eravamo divoratori di romanzi e tutte quelle parole si impossessavano della nostra mente e ci costringevano ad abbandonare il nostro piccolo spazio di certezza per abbracciare il possibile. Prima dell’avvio dei caffè letterari dovevano essere individuati i tre vincitori della Selezione opera prima e i tre libri venivano condivisi con il pubblico.

A fine settembre si andava a nozze coi tre vincitori e il pubblico lettore che avrebbe insieme a noi scelto il supervincitore del Seminara. E ne abbiamo scoperti di talenti: da Giuseppe Lupo, a Giorgio Todde, da Paolo Giordano a Sonia Serravalli… giovani sconosciuti che oggi sono tra i più letti in Italia e all’estero.

Tutto questo e molto altro, che ancora è nel cuore e lo sostiene, era il Rhegium Julii. Oggi il presidente dei presidenti, Giuseppe Casile, ha dovuto lasciare la poltrona, che meritava più di chiunque altro. Tuttavia ha lasciato il testimone a un poeta, Pino Bova, che sta conducendo la nave in acque sempre più tempestose, ma con determinazione ed entusiasmo.

Le voci che hanno animato questa città sono ancora guide, soprattutto nell’epoca della caduta e del silenzio, ma una certezza incrollabile anima chi ne ha fatto parte: la bellezza non può mai essere sconfitta.

Francesco Idotta

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Comments

  • Demetrio Spagna

    juillet 31, 2021 at 19 h 27 min
    Reply

    Grazie Francesco Idotta per averci donato le tue riflessioni. E' un piacere leggerle.

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