Il mio canto libero, Intervista a Lucilla Galeazzi


Io sono di terra, sono fatta di terra
.
Sono più antica del cielo,
sono più antica dell’acqua e non ne sento la fatica.
(Lucilla Galeazzi)

Lucilla Galeazzi, voce significativa e attualmente una delle più grandi interpreti e punto di riferimento della musica popolare italiana. Quando  parlo con lei  è un fiume in piena di ricordi, di racconti e di emozioni, dopo averla conosciuta all’edizione straordinaria 2020-2021 del Talos Festival di Ruvo di Puglia, storica kermesse di musica e danza con la direzione artistica di Pino e  Livio Minafra.

Com’è nata la passione per la musica popolare?

Sono nata da due famiglie in cui la musica era di casa. I Paganelli, la famiglia materna (nonna Medea e nonno Francesco) arrivarono a piedi dalla Romagna perché, con il disfacimento dello Stato Pontificio e l’annessione al Regno d’Italia, le terre del Papa erano state date ad altri proprietari e così pensarono bene di andare a cercare lavoro a Terni, diventata nel frattempo il centro di un progetto ambizioso del Re, quello di produrre l’acciaio per costruire le navi e dotarsi di una Marina forte per competere con quelle britanniche e conquistare il predominio del Mediterraneo. I fratelli di mia madre suonavano tutti uno strumento: chitarra, mandolino, violino.

I Galeazzi, la famiglia paterna (nonno Alvise e nonna Mariuccia) erano nati nella campagna circostante e poi trasferitisi a Terni, perché nonno era diventato un dirigente del dazio, tutto ciò che dalla campagna veniva portato a Terni, pagava una tassa, dunque alle porte della città c’erano gli esattori, come mio nonno.

Nonno Alvise ci teneva tanto che i suoi figli suonassero uno strumento e scelse per mio padre (dal nome aulico di Pensiero) la chitarra e il mandolino per lo zio Aldo. Questi era uno sportivo importante per la società “Terni Acciai”, per la quale lavorava e vinceva sempre le gare di lotta greco-romana, di pugilato, di corsa, di lancio del giavellotto e del lancio del peso. Mio  padre era un semplice operaio ma comunista, anche mio zio lo era ma lo tolleravano di più perché era l’idolo della fabbrica. Dunque, la passione per la musica popolare è nata naturalmente. Poi vennero gli anni bui della guerra.

Valentino Paparelli è stato fondamentale per farmi scoprire la musica della campagna ternana. Era  nato in un paesino chiamato Buonacquisto, seppe che io cantavo e venne a trovarmi, per parlare con i miei genitori (mio padre era morto purtroppo). All’epoca si faceva così. Io avevo 26 anni e insegnavo nelle scuole materne comunali, non sapevo nulla della musica popolare tradizionale e grazie a Valentino l’ho scoperta. All’inizio rimasi stupefatta, perché quelle voci ruvide, quasi urlate mi lasciavano interdetta, alla fine mi resi conto che stavo affrontando uno stile che con la musica urbana non aveva nulla a che vedere. Era, invece una musica di altri tempi, cantata dai contadini durante il lavoro dei campi, ma anche per il carnevale, per l’epifania, per le feste della primavera, per il taglio del grano, per la raccolta dell’uva e delle olive, per il Natale e per la Pasqua. Una  musica estremamente rituale, stagionale dove i cantori cantavano sui campi, ma anche giravano di casa in casa, di cascina in cascina per raccogliere un po’di uova, di pane, un pezzo di formaggio. Tutto questo fatto da musicisti spesso molto bravi. La scoperta di questa musica, legata ai riti e alle funzioni, mi ha cambiato la vita!!!

Sei la voce più significativa della musica popolare italiana, un riferimento per tutti gli artisti di questo settore. Fondamentali sono stati gli incontri con l’antropologo Valentino Paparella, con Giovanna Marini e con Roberto De Simone. Ci racconti che cosa ti hanno lasciato e se in qualche maniera ti hanno influenzato musicalmente?

Valentino Paparelli mi ha insegnato che la musica popolare ha un valore proprio perché nasce dal bisogno e dalla quotidianità: il bisogno di danzare, suonare, incontrarsi, e poi, tra un lavoro e l’altro, scoprire i talenti di chi ha una bella voce e canta i canti appresi dai nonni e nonne, madri e padri e dal paese, dalle ninne nanne ai canti di festeggiamento delle nozze, dai canti d’amore e di corteggiamento fino a quelli di protesta per lo sfruttamento dei contadini e degli operai.

Questi canti venivano trasmessi a memoria e come succede, le varianti erano tantissime, anche da madre a figlia e da padre ai figli. È normale che questo succeda nella cultura orale, che è piena di invenzioni fatte nel momento! Nello stesso tempo però i cantori più bravi erano quelli che avevano più memoria e potevano avere un repertorio più ricco e stabile degli altri.

Tutto questo mi ha portato a valorizzare i canti che sentivo a casa, alle storie di vita che raccontavano mio padre, mia madre, gli zii durante le chiacchierate nelle sere d’estate, quando il caldo  toglieva la voglia di andare a letto e si restava a raccontarsi per la millesima volta le stesse storie e gli spaventi passati durante la guerra. Mi rendo conto anch’io, che  ho raggiunto la bella età dei settanta, sento il bisogno di  raccontare ai più giovani  le storie che mi hanno raccontato e quelle che  ho vissuto. Il repertorio delle canzoni ternane l’ho imparato da mio zio Alfeo e da papà che aveva una bella voce intonata, piena di passione con un “tremolo” naturale.

Poi un giorno un signore  bussò alla porta di casa e si presentò: “Sono Valentino Paparelli e mi occupo di musica tradizionale umbra. Ho fatto molte ricerche e registrazioni sul campo e mi farebbe piacere fargliele ascoltare”. Eravamo nel pieno del Folk Revival e la cosa mi piacque. Così andai a casa sua e mi fece ascoltare qualche registrazione “sul campo”, fatte cioè  in osteria o durante il lavoro nei campi o in casa dei “portatori”, coloro che conoscevano canti e suonavano strumenti tradizionali come l’organetto. Fu così che la musica tradizionale entrò nella mia vita senza uscirne mai più. Roberto De Simone, un gigante! Un musicista grandissimo e uomo di una cultura veramente profonda. Era nato da una famiglia povera. Con lui ho capito la grandezza della musica napoletana. Con Roberto De Simone si lavorava tutti i giorni, domenica compresa. I  suoi spettacoli erano molto belli e dovevano essere perfetti. Non si doveva sbagliare mai, neanche una virgola, quindi spesso le prove dello spettacolo duravano due, tre mesi. Con lui ho fatto “Stabat Mater” per quattro voci maschili e quattro femminili. Irene Papas interpretava il ruolo della Madonna che iniziava cantando in greco, la sua lingua madre e finiva per fare il pianto della Madonna di Jacopone da Todi scritto in Volgare. Questo spettacolo è stato portato anche a New York  nella Cattedrale Cattolica  di Saint John The Divine.

Nelle tue ricerche antropologiche ed etnomusicali, spesso ti sei occupata della condizione femminile e delle donne sfruttate nel lavoro. Hai messo così in scena “Il fronte delle donne”, spettacolo sulla Prima Guerra Mondiale, ideato da te con la regia dell’attrice Maria Rosaria Omaggio. Com’è nata l’idea?

Io ho una vera passione per la storia, penso che conoscerla aiuta molto ad orientarsi nella vita. Così quando è cominciato il centenario della Prima Guerra Mondiale, ho cominciato a studiare il ruolo delle donne durante questa terribile e sanguinosa guerra. Le donne furono assunte nelle fabbriche al posto degli uomini perché questi erano impegnati al fronte: guidarono tram, lavorarono nelle fabbriche d’armi, fecero i vigili.  A Terni, una ragazza di 16 anni, Carlotta Orientale, condusse uno sciopero delle donne dello jutificio “Centurini”, solo donne tranne i caposervizio, naturalmente uomini, per chiedere condizioni di lavoro più umane. Anche le donne incinte facevano i turni e spesso perdevano il bambino. Era di là da venire l’uguaglianza ma certo è che, con la Prima Guerra Mondiale, ci fu una mobilizzazione  enorme della manodopera femminile per sopperire all’assenza di quella maschile. Il movimento delle suffragette, partito dall’Inghilterra, lentamente contagiò tutta l’Europa. In scena ne “Il fronte delle donne”, erano tutte donne e la gente usciva in lacrime perché scopriva quanto avessero sofferto le donne, diventate infermiere e portate al fronte a curare i poveri ragazzi feriti negli ospedali da campo, non avendo che pochi strumenti, eppure facendo turni massacranti di dodici ore al giorno. In  quel mattatoio della gioventù che fu la terribile prima guerra mondiale. Per questo ho ideato questo spettacolo, perché il fronte non fu solo un posto per uomini, ma anche le donne ebbero un ruolo importante e condivisero il sacrificio della gioventù mandata all’inutile massacro.

Quali musicisti hanno collaborato con te lasciando un’impronta decisiva?

Alcuni li ho già elencati: Giovanna Marini è stata determinante e Roberto De Simone. Ma  una delle mie passioni musicali, a parte il folk revival, è sempre stato il Jazz. A Terni esisteva un jazz club  dove venivano a suonare i migliori musicisti italiani. E poi nacque l’idea del Festival “Umbria Jazz” ed anche lì ci fu lo zampino di Valentino Paparelli che nel frattempo era diventato Assessore alla Cultura della Regione Umbria. Io nel frattempo avevo deciso che volevo cantare e mi ero trasferita a Roma poiché era più facile spostarsi e fare concerti.

Sono stati anni difficili, ma io li ricordo come divertenti allo stesso tempo. Poi  cominciai a farmi un pubblico e non giravo più sola con la mia chitarra ma con il “Quartetto Giovanna Marini”, con il “Trio Rouge” (Lucilla Galeazzi, Michel Godard, Vincent Courtois) e poi ancora con un altro fenomeno della musica francese, Claude Bartelemy, con il quale incidemmo un bellissimo disco intitolato “Rock air de la lune”, canzoni dedicate ai bambini. Insomma, una voglia di esplorare i tanti aspetti della musica, da quella classica, al jazz, all’improvvisazione, per poi tornare alle mie canzoni e al repertorio tradizionale, senza tralasciare la famosa Ensemble di Musica Barocca, “L’Arpeggiata”, diretta da Christina Pluhar, una esperienza bella e piena di viaggi: dalla Francia a tutti i paesi d’Europa, senza tralasciare L’Australia, gli Stati Uniti, il Giappone, l’Israele, la Russia.

Diritti, donne, guerra, lavoro, partigiani, resistenza sono concentrati nel tuo repertorio. Perché, secondo te “Bella ciao” ancora oggi nel mondo coinvolge emotivamente tutti?

La canzone italiana “Bella Ciao” è indubbiamente la più cantata nel mondo. La ragione è che la melodia è molto bella, ma anche il testo. Esiste un canto tradizionale che ha ispirato la versione “Bella Ciao” partigiana e si chiama “Fior di tomba”. La canzone racconta di una ragazza che un giorno si affaccia alla finestra e vede passare il suo amore con un’altra donna. Allora dice: “Papà, mamma, scavatemi una fossa dove possiate seppellirmi e sulla tomba metteteci un bel fiore e tutti quelli che passeranno diranno “ E questo è il fior della Rosina ch’è morta per amore”.

Ma poi questa canzone divenne, con un testo rielaborato, il canto partigiano per eccellenza. Esistono centinaia di versioni in quasi tutte le lingue del mondo.

Con il disco “Amore e Acciaio” vinci il Premio Tenco. Ci parli di come è nata l’idea di questo progetto discografico?

“Amore e Acciaio” sono l’Alfa e l’Omega di Terni. Per lungo tempo Terni è stata l’acciaieria più importante d’Italia, quindi Acciaio, ma anche la città il cui patrono è San Valentino, protettore degli innamorati. La storia narra che San Valentino era un uomo con una fervente fede cristiana ma che, come tutti i cristiani, dovevano nascondersi nelle catacombe. I romani erano molto liberali ed accettavano tutte le religioni salvo che non  negassero l’origine divina dell’imperatore. Ebbene, San Valentino non poteva certo accettare che l’Imperatore avesse la stessa origine divina di Dio, di Gesù, della Vergine Maria. Successe che una delle fedeli di Cristo che si riuniva nelle catacombe si innamorò di un soldato romano e lui di lei. Così chiesero di sposarli con il rito cristiano.

Saputo questo, l’Imperatore condannò San Valentino alla decapitazione. Si narra che quel giorno  si levò un vento fortissimo e la testa di San Valentino fu portata via e non si ritrovò più. La metafora è che chi ama perde la testa. Insomma il Santo protettore degli innamorati è un Santo senza testa!

Ha ancora senso cantare la tradizione popolare?

Sì, ha senso purché  lo si faccia con la gioia e la convinzione con cui da tanto tempo si canta la musica popolare.

Quali progetti hai in cantiere?

Ho in cantiere uno spettacolo di canzoni di Kurt Viler, sarò accompagnata al pianoforte da Silvia Paparelli, figlia del grande Valentino. Ma poi, ne ho almeno altri due nuovi.

Anita Piscazzi

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