Quello che resta

Ci sono alcuni libri che riescono a riconciliarci con i suoni primigeni del mondo e la semplicità essenziale delle stagioni della vita. Libri che creano alleanze di mente, mano e cuore, nonostante le numerose ferite e le obbedienze ad esse. È il caso di Poesie (2020-1997), per i tipi La Vita Felice di Milano che propone alle stampe l’ultima fatica letteraria di Vittorino Curci, poeta e sassofonista geniale di musica improvvisata, premio Montale’99 per la sezione inediti. Voce importante della poesia italiana contemporanea, Curci cura la rubrica la Bottega della poesia  per La Repubblica sezione di Bari. Artista eclettico e versatile, da anni esplora gli spazi poetici e musicali con una ricerca del tutto personale e sperimentale, ma con questo florilegio ha voluto rappresentare se stesso e prendere coscienza con uno sguardo più maturo della sua poesia che è viva perché vive nella dimensione temporale. Si tratta di un’auto-antologia divisa in dieci sezioni che percorrono a ritroso ventitré anni di poesia, con una selezione attenta sin dalla prima sezione che contiene gli ultimi inediti, andando indietro nel tempo fino alla decima e ultima sezione.

In questa scelta poetica ci sembra quasi di ascoltarla la “lallazione in do maggiore” che attraversa il cammino come un fiume carsico. Perché quella di Vittorino Curci è una poesia a più voci e il viaggio a ritroso non può che essere in modo maggiore fatto di antiche scale pentatoniche che ci ricordano la produzione prelinguistica e visionaria dell’infanzia, come bene descrive Milo De Angelis nella prefazione: “L’infanzia percorre tutte queste pagine, con le sue scene antiche e il suo eterno primo ottobre nel cortile della scuola, il suo giocare a mosca cieca con le ore della notte. Ma non è l’infanzia crepuscolare del rimpianto. È una stagione vivissima che non possiamo situare nel passato, che ci raggiunge e ci supera, a volte ci aspetta”. La stagione primordiale che ci aspetta, che non è affatto superata o dimenticata, anzi è un tuffo nell’infanzia del mondo: “Se penso al mattino del creato/quando le cose furono toccate da uno sguardo per la prima volta/io sono contento di tornare sui miei/ passi”.

L’autore sembra volerci avvisare di essere qui ed ora, lasciandoci un testamento umano, morale e poetico, lucido che traccia una rotta ben decisa: “sono nel momento che ricorderanno,/nella gioia di un presente che esplode/tra due secoli./erano e sono i pensieri di un bambino./una meta sperata,/una data./mai, non potrei mai girare questa pagina./chiudo gli occhi. esco/in silenzio.” Ci invita a sbrigarci, a non perdere tempo e a viverla questa vita, perché scrivere non è altro che questo: “venga pure il tempo dei rovelli e dei malocchi/delle fionde e delle croci, ma ora sono qui/ nel presto musicale di questi alberi e queste/case che guardo come fossero tubazioni/incrostate, […] ma non ho comandi, consigli o suppliche/non mi piego al modo imperativo. […] cospirazione dei giorni veloci […] la spinta è forte come vita che nasce/e non c’è il tempo di pensare ai dettagli confusi/di tutti quei giorni schizzati via dal calendario”.

L’urgenza poetica di Vittorino Curci sta nella forza della sua parola nuda, essenziale che scardina a colpi di rasoiate, sanguina, portandosi dietro tutti i residui della storia vissuta che va a risvegliare ciò che speravamo di dimenticare: “centimetri bianchi di memoria/giorni di cui parleremo./ho guardato dai vetri gli spezzoni di altre nevicate, sfocate, lontane./ho cercato di non piangere […] ma va a ritroso questo/accecante gennaio, va a cercare/un giovane soldato che è rimasto/ indietro nella neve./«su, ragazzo, alzati, non lasciarti/morire. Tu puoi salvarti»/«che storia è questa?»/«una storia che finisce male» […] albe mute ci mangiano/i sogni che facciamo/la parola cade sul foglio/ per scaricare il peso di mille storie/ […] la notte resta impigliata nei vestiti./fuori, non ci siamo che noi/sotto mentite spoglie”.

Ma gli artisti, si sa sono come l’Araba Fenice muoiono e rinascono dalla propria cenere. La parola per un poeta che è anche musicista è soprattutto suono, ritmo, silenzio e questa opera è ricca di tonalità, di alterazioni, di canoni, di silenzi, di canti dedicati a personalità musicali ed eclettiche come Salvatore Sciarrino, al quale Curci dedica la Canzona di ringraziamento per flauto: “non vince mai nessuno, e sei costretto/ a ricominciare daccapo guardando, come/ sempre hai fatto, a chi non ha nient’altro/che il suo respiro”. E Curci il suo respiro lo conosce bene, il suo sguardo lungimirante e visionario ha liberato la mente da ogni preconcetto, spogliandosi completamente di fronte alla parola, dichiarando che: “La poesia non è una ‘carezza’, ma piuttosto una ‘puntura’. Deve risvegliare qualcosa che dentro di noi è sopito, qualcosa che sapevamo e abbiamo dimenticato”.

Forse per quella particolare scucitura del tempo e la prolungata infanzia, l’autore ha saputo valorizzare in poesia i lati oscuri che non sa ancora spiegarsi, se non con le sensazioni e con le emozioni che fuoriescono dalle stesse ceneri della storia personale: “ma anche questo è un tempo/un precipizio di luce/sugli anni che non vedremo./e sono confusi i pensieri, confusi/i gesti che ci portano alla frontiera/di una terra diversa, ereditata […] c’è, ci deve essere, un modo per piangere/e non lasciarsi andare alle cose/inventare, qui dove non c’è anima viva”. Curci, in ultima analisi sembra volerci dire di prendere tutte le parole che vogliamo per lasciarlo in pace a sognare che: “fosse così/il mondo, un luogo immaginato e vivo/come l’arte che pulsava alle tempie./” perché “Questo è il libro che avrebbe voluto scrivere/il ragazzo che piantò il verde in un momento di grazia” e che quel ragazzo ha tutto ciò che ci vuole: “il pensiero delle mani/la luce e l’attesa/la forza degli occhi”.

Anita Piscazzi

Vittorino Curci: “Poesie (2020-1997)”
(La Vita Felice, Milano 2021, pp.170).

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