Nel nome della madre

Si sprecano i manuali di psicologia dell’età evolutiva, quando si parla del delicato rapporto madre figlia, fondamentale per una donna, perché le insegna come stare al mondo e come vivere le relazioni durante la propria vita. Se questo subisce delle mancanze o dei difetti, iniziano i dilemmi. Siamo cresciuti in una cultura che crede nell’amore di una madre come a un istinto primario, e quando esso non trova riscontro nella realtà iniziano le frizioni emotive. L’abbandono sentimentale e fisico di una madre nei confronti della figlia lascia delle cicatrici importanti. Però, ci sono alcune figlie che farebbero di tutto per far felici le proprie madri. Ma quando queste ultime rispondono con indifferenza e disprezzo, addirittura ricusando la figlia, ecco che iniziano a nascere dissidi. Di questo tipo di relazione materna e tormentata ci racconta Maria Grazia Calandrone, affermata poeta e scrittrice, in Splendi come vita, ultima fatica letteraria per i tipi Ponte alle Grazie di Milano, finalista al Premio Strega.
L’autrice riferisce in prima persona i ricordi del delicato e fragile rapporto con Ione, sua madre adottiva, che l’ha accolta amorevolmente a soli otto mesi, dopo essere stata abbandonata dalla madre biologica suicida, come si legge da un trafiletto di giornale che apre il libro. La stessa autrice dirà che: “È il racconto di una incolpevole caduta nel Disamore, dunque di una cacciata, di un paradiso perduto. Non è la storia di un disamore, ma la storia di una perdita”. E dunque, si tratta della cacciata e della caduta di un angelo bellissimo: “Sono caduta nel Disamore a quattro anni, quando madre rivelò Io non sono la tua Mamma Vera […] sembra che io abbia reagito alla Notizia gigantesca con maturità esemplare, abbracciando lei viva e presente[…] rispondendo che non ha importanza, Mamma sei tu”.
Una bambina che ama totalmente e incondizionatamente la propria madre e che percepisce la prima ferita inferta da una donna che, probabilmente si è sempre sentita, in fondo una non madre, una non vera madre che ne esce ferita dalla sua stessa rivelazione e che, pertanto non crede più all’amore della figlia: “Il Disamore avvolge i letti dei bambini fra le spire di un pianto non pianto. I bambini non amati non piangono. Chi chiamerebbero, col loro pianto?[…]e il non amato(cioè il non vivo, il mostriciattolo) deve fiutare l’aria, osservare le scariche di temporale che si preparano, nell’ombra delle camere da letto”. Un secondo parto, fatto di parole dolorosissime che vanno a fratturare quell’equilibrio primario così amorevole che, dopo una serie di falsi sospetti, porterà entrambe ad allontanarsi e a vivere un dolore e un rifiuto quotidiano: “Fu così che smise di vedermi./Fu così che iniziò a perseguitarmi./Fu così che smisi di dipingere/quadri che non poteva più vedere/e tentai la poesia”. La poesia salvifica e la parola, alla quale è dedicato l’intero romanzo, protegge l’autrice dalla follia, che ha trovato con questa prosa finalmente la lingua giusta per parlare del suo amore di figlia.
La Calandrone, infatti, sceglie una scrittura sospesa tra prosa, musica e poesia, tant’è che dice di avere scritto una prosa musicale e che, probabilmente, tutta la sua produzione poetica scritta finora, le è servita da preludio a questo lavoro, con una lingua fatta di frammenti e di numerose pause, di non detto che però dicono tanto e questo, si sa è proprio della poesia. In quel silenzio bianco delle pagine ha spazio la sensibilità: “Madre è bionda, bella, lucida, normanna e stalinista. […] C’è una malinconia grande, nei suoi begli occhi neri, […] Mamma guarda fisso davanti, come se non vedesse. Mamma dove sei? A volte Mamma vede solo quello che ha perduto. Allora, io l’abbraccio e le dico Mammina. Vuol dire Non lasciarmi qui sola.” Quando si legge questo libro ci si immedesima a tal punto che si pensa alla propria vita. L’obiettivo della scrittrice sembrerebbe questo, che il libro parlasse di sé al lettore e della vita del lettore stesso. Perché ciò accadesse, la Calandrone ha mostrato a tutti sull’altare il suo sacrificio di figlia scrivendo: “Mamma che passa la sera a pettinarmi perché ha letto che il riccio è una malattia del capello. […] Mamma mi porta spesso dal neurologo perché dice che non sono normale. […] Madre mi punisce per colpe immaginarie lasciandomi senza cibo. Però possiedo il «Costruttore Meccanico» Bral 5. Fabbrico gru dai lunghissimi bracci, coi quali aggancio vettovaglie attraverso spiragli di porte e finestre. […] Madre organizza di picchiarmi durante il sonno. Madre dorme con la bacchetta di legno sotto il cuscino.[…]Madre mi accusa di aver rapinato una banca a Firenze. Madre gira per casa con la borsetta sotto il braccio. […] Madre dice Ti colpirò nella cosa a cui tieni di più. […] Madre mi denuncia per percosse”.
Il romanzo ci accompagna lungo decenni di storia del passato, dalla fine degli anni Sessanta fino al Duemila: c’è la guerra del Vietnam, c’è il cambio del nome del partito Comunista, c’è Aldo Moro, c’è il reattore nucleare di Cernobyl. Tutti quegli elementi storici civili e sociali che hanno segnato la sua evoluzione, l’autrice ce li racconta in musica, quasi cantando: “Il 1974 è l’anno di Anima mia. Ti aspetterò dovessi odiare queste mura. Credo che a cantare quella promessa sia una ragazzina.[…] Il 1977 è l’anno di Ti amo di Umberto Tozzi. E chiedo perdono. Mamma, che ti ho fatto? Le sottane nella luce. Mamma tiene le calze nel cassetto. Mamma sdraiata nella controra.[…] Nell’anno scolastico 1977/78 il Liceo «Augusto» è uno sboccio di animulae. […] Là fuori è il tempo delle P38 […] la sconvolgente esecuzione di Aldo Moro […] Nei pomeriggi estivi del Settantotto, un giradischi con casse possenti, dalle quali affluisce il magma musicale: Time (Pink Floyd)…and then there were three… (Genesis) e Generale (Francesco De Gregori) […] Dove sta la salvezza? Cos’è meno infernale, dell’inferno del vivere, del quale siamo involontari precipitati? « Oh Mama / Mamma / Please would you find the key / Per favore, trova / la chiave / Oh, pretty mama / Mammina / Please won’t you let me go free / Per favore non lasciarmi andare ».”
Il racconto è percorso dalle ripide della nostalgia in cui, più si va avanti nel tempo e più si ritorna a come si era, accarezzando seppure per un attimo, anche quella idiozia dostoevskijana che ci abitava e che si identifica con la vita di tutti, fino ad arrivare al Duemila, quando il libro si interrompe con la morte della madre che la Calandrone ha sempre ritenuto la “madre vera” e con il potere delle parole è riuscita a dare vita a ciò che non c’è più facendola splendere come vita: “Mamma, sei tanto stanca./Puoi andare, mamma./Mamma, ti lascio al fuoco col mio dono/da nulla, un foglio arrotolato/fra le tue belle mani./Mamma, io ti accompagno oltre le fiamme./Le parole non servono a niente./Abbiamo solo il tempo della vita, mamma./Nient’altro./Mi posso mettere vicino a te?”

Anita Piscazzi

Maria Grazia Calandrone,
Splendi come vita, Ponte alle Grazie,
Milano 2021,pp221.

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Comments

  • Fabiola Viani

    avril 12, 2021 at 22 h 01 min
    Reply

    Grazie Anita Piscazzi per questa tua bella recensione che ha saputo cogliere profondamente il senso di questo libro, scritto come nessun altro !

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