L’oracolo narrativo e la voce delle scrittrici in « Trema la notte » di Nadia Terranova

Trema la notte (Einaudi, 2022) della scrittrice messinese Nadia Terranova restituisce la voce a una donna e a un bambino, Barbara e Nicola, le cui storie si snodano autonome e parallele sullo sfondo di un grande disastro ambientale, quello del terremoto che distrusse le città di Messina e Reggio Calabria il 28 dicembre 1908.

Il libro si suddivide in ventiquattro capitoli con la sezione iniziale, “Preludio”, e quella conclusiva, “Novembre 1919”, ambientate nel 1919 a far da cornice. I titoli dei rimanenti ventidue capitoli, in cui si sviluppa l’intreccio principale degli anni 1908-1909, corrispondono ai nomi degli arcani maggiori dei tarocchi, senza seguirne la numerazione in progressione crescente o decrescente ma prediligendo invece un percorso non lineare che comunque segnala e anticipa lo sviluppo della trama. Ogni capitolo reca in calce un’epigrafe con una breve spiegazione dell’arcano in modo che costituisca un’altra cornice, annidata dentro quella esterna. Le citazioni, come apprendiamo dalla “Nota al testo”, provengono dall’opera di Anonimo, Meditazioni sui tarocchi. Un viaggio nell’ermetismo cristiano e sono un paratesto che permette al lettore di costruire un significato simbolico, esoterico, degli eventi. In questo modo il romanzo si configura come una sorta di oracolo narrativo inscritto nella struttura stessa del racconto. Gli arcani sono presenti anche nella trama vera e propria con i vaticini dell’incantevole Madame, la cartomante portatrice di salvezza letterale e simbolica.

La narrazione alterna la storia di Barbara, raccontata in prima persona, e quella di Nicola, in terza persona, con un andamento regolare, rassicurante, che àncora la nostra attesa a un orizzonte di certezza in mezzo allo sgretolarsi di palazzi, chiese, ponti, materia. Come già accennato, per entrambi i personaggi ci troviamo di fronte ad una conquista della parola che equivale a una rivendicazione di agentività.

Barbara, la giovane donna aspirante scrittrice che dice io in Trema la notte, rompe il silenzio in cui è stata scaraventata da secoli di oblio. In un certo senso, non è la donna ma le donne. Parla per tutte coloro la cui voce è stata soffocata e si leva adesso dai detriti della città e dalle “macerie della Storia”. Ricollegandoci a quanto acutamente illustra la studiosa Katrin Wehling-Giorgi, possiamo dire che Terranova, sulle orme di Natalia Ginzburg, propone con Barbara un’identità narrativa che è “un’alternativa potente ed umile all’onnisciente racconto maschile dei fatti storici”. Non per nulla il suo modello, il suo idolo, è l’oscura scrittrice Letteria Montoro, colta messinese del secolo diciannovesimo, il cui romanzo dal titolo Maria Landini Barbara porta con sé a Messina dopo aver tentato di metterlo fra le mani di suo padre alla stazione di Scaletta Zanclea. All’indomani del terremoto, Barbara si reca alla tomba di Letteria Montoro e tra le rovine del sepolcro distrutto trova una foto della scrittrice. Quando Jutta – una donna tedesca che diventerà un personaggio chiave del romanzo – le chiede se è la foto di sua madre, Barbara ne dà conferma. La scrittrice messinese diventa dunque la madre simbolica di Barbara. Accettando l’eredità di Letteria Montoro, la protagonista rifiuta il destino che il padre le ha prescritto, quello di sposare un uomo e restare nell’ambito dei confini domestici occupando lo spazio privato tradizionalmente assegnato alle donne. L’approdo a Messina dove abita la nonna, di ampie vedute e responsabile dell’educazione culturale della nipote (così come del suo nome di matrice straniera), si configura come un rito di passaggio grazie al quale la donna e la città diventano tutt’uno: “Camminavo a testa alta nella sera di Messina, la voce dentro di me si faceva più forte, il petto più sporgente, mi trasformavo in roccia, in uno degli scogli della zona falcata della città, avrei arginato i venti” (21). La sua ribellione è però anche un atto d’orgoglio, di hybris che sarà punito, come vedremo più avanti nel romanzo.

Da parte sua, Nicola, come molti bambini, ha un destino non dissimile da quello di Barbara. La sua voce non conta, non ha peso nel mondo degli adulti. Nel suo caso però l’invisibilità dell’infanzia si colora di tinte fosche come quelle di una favola gotica, opprimenti come l’atmosfera della cantina in cui il ragazzo è costretto a dormire ogni notte, avvolto da un buio pesto senza finestre che “gli mangiava l’aria nei polmoni” (28). Giunto dopo molta attesa in una famiglia “nata per contratto”, governata da “perversioni e connivenza”, Nicola è soffocato dall’amore della madre, Maria, donna “pervasa dal desiderio di imporsi sui maschi” (10) e terrorizzata alla prospettiva di perdere il suo unico figlio, trofeo e vittima privilegiata. Dormire su un catafalco altissimo, con i piedi e le mani legati da corde sante, è la soluzione escogitata da Maria per ingannare il diavolo che se mai cercherà Nicola lo scambierà per un morto. Ogni notte il bambino è abbandonato ai suoi incubi, popolati da mostri viscidi e ringhianti che gli parlano con la voce di Maria da cui infine il suo corpo viene simbolicamente divorato: “La creatura metà medusa e metà ringhio arrivò sopra il catafalco e si fermò a pochi centimetri dal suo viso, per poi aprire una bocca gigante e piena di denti aguzzi. La voce di sua madre lo divorò” (29-30). Ecco perché Nicola, prima ancora di perdere la parola per effetto del trauma che unirà la sua vita indissolubilmente a quella di Barbara, è in effetti già stato silenziato, posseduto com’è dalla voce di Maria. ​​

L’afonia di Nicola riporta alla mente il Castello dei destini incrociati (1973) di Calvino, un testo con cui certamente Terranova ha dovuto fare i conti per l’utilizzo che in esso si fa dei tarocchi come strumento di divinazione-narrazione. Privati della favella per effetto di un incantesimo, i cavalieri che si incontrano nel castello calviniano riescono a comunicare attraverso le immagini di un mazzo di tarocchi. Disponendo le carte sul tavolo, ciascuno di loro racconta la propria storia che il lettore può vedere simultaneamente illustrata ai margini del foglio riportanti la successione di arcani maggiori e minori selezionati dal cavaliere di turno per il proprio racconto. È significativo, a nostro parere, che nella mappa elaborata da Calvino, la carta dell’Appeso che segna l’inizio del percorso di Nicola – dallo scantinato della casa paterna verso l’afonia e la costruzione della sua nuova identità – sia quella di Orlando, il paladino pazzo per amore. La sovrapposizione tra Orlando e l’Appeso allude al brechtiano ‘principio di reversibilità’ su cui si fonda tanta della poetica calviniana.  “Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro”, dice il paladino “legato a testa in giù”. Questo capovolgimento del dualismo ragione-follia, ordine-caos, è imprescindibile per comprendere anche l’ossessiva razionalità dello schema dei tarocchi preposto ad imbrigliare lo sforzo combinatorio di Calvino, uno schema in cui è impossibile farci stare tutto, perché arriverà sempre un arcano come Il Matto a vanificare le pulsioni della ragione.

Che l’Appeso arrivi da subito in Trema la notte, è segno che il caos sia accettato immediatamente come meccanismo regolatore della realtà in un mondo in cui, con l’arrivo del terremoto, gli esseri umani diventeranno dei “non morti … sagome smarginate dentro nuvole di fumo incendiario e calcinacci” (55).

In apparenza, i due sopravvissuti su una sponda e l’altra dello stretto, Barbara e Nicola, si trovano inaspettatamente liberi di costruire dalle macerie del passato un’identità ‘altra’ rispetto a quella che sarebbe stata modellata dalle intenzioni dei rispettivi genitori. Ma questa libertà è solo apparente visto che Barbara e Nicola dovranno fare i conti con la violenza degli uomini che si abbatte sulla loro sorte con ferocia inaudita, condizionandone il percorso futuro.

In particolare, è significativo il destino di Barbara il cui arcano, quando si sveglia nella città devastata dal sisma, è La Torre, simbolo della hybris, della presunzione che spinge gli umani a costruire un edificio altissimo “per sostituire la rivelazione del cielo” – come la torre di Babele per intenderci – e che determinerà quindi la loro caduta da ogni posizione di potere come per effetto di un deus ex machina. Non si allude qui solo al terremoto come meccanismo di retribuzione divina per i peccati degli uomini, secondo credenze superstiziose largamente documentate all’indomani di disastri naturali fin dall’antichità, ma anche alla violenza subita da Barbara e da altre donne nella città oltraggiata. È come se la ribellione alla legge del padre, fieramente proclamata da Barbara all’inizio del romanzo, dovesse avere come suo contraltare punitivo la caduta dalla Torre e il precipitare nel baratro della violenza patriarcale.

D’altronde, il padre è il fantasma che perseguita Barbara e che aveva perseguitato anche Ida, la protagonista di Addio fantasmi (Einaudi, 2018). Ma laddove nel precedente romanzo avevamo assistito ad una vera azione di pedinamento del padre scomparso – con Ida a girovagare per i luoghi della città che ancora conservavano un’impronta della sua presenza (Milkova 2021) – in Trema la notte emergere dalle rovine della città patriarcale, che dopo la catastrofe è ancora rasa al suolo da ondate di violenza maschile, significa decisamente declinare al femminile la propria identità, lasciandosi alle spalle il padre e il suo nome e affidandosi ad una rete di supporto costruita da donne.

Lo stile del testo è intensamente poetico – e di una poetica della macerie ha parlato recentemente Serena Todesco – soprattutto nelle descrizioni del disastro in cui Terranova opta per un registro decisamente letterario, spesso punteggiato da un lessico prezioso che conferisce un ritmo pensoso ad una narrazione resa altrimenti dinamica dal sapiente utilizzo del montaggio parallelo. L’indubbio tentativo di evocare per Barbara una genealogia di fonti letterarie al femminile, con il riferimento a Letteria Montoro e a Matilde Serao, rispecchia l’impegno profuso da Terranova nella riscoperta della grande letteratura delle scrittrici recuperata dalle macerie dell’editoria italiana che, nel secolo scorso e in quello precedente, era coniugata quasi esclusivamente al maschile. Pensiamo, ad esempio, alla sua prefazione al romanzo di Fabrizia Ramondino, Guerra di infanzia e di Spagna (2001), tornato disponibile per i tipi di Fazi Editore. Oppure alla collana “Mosche d’oro”, che Terranova dirige per Giulio Perrone editore con Giulia Caminito e Viola Lo Moro, in cui si pubblicano biografie di donne scritte da donne. E nella prefazione alla ristampa de La vacanza di Dacia Maraini (Rizzoli 2021), Terranova collega perfino la scrittura delle donne alla figura del terremoto: “Ogni libro scritto da una donna è uno scandalo, ogni libro pubblicato l’annuncio di un terremoto…Credo che ogni donna che scrive in Italia oggi debba rendere un silenzioso grazie a chi lo ha fatto prima di lei, aprendo con difficoltà varchi fino a quel momento preclusi a tutte” (6). Insomma, in Trema la notte Terranova stabilisce una genealogia femminile, un nesso con le scrittrici del passato, come Letteria Montoro, che hanno aperto uno spazio per le donne che scrivono oggi.

In questo senso, comprendiamo ancora più a fondo il tributo che Nadia Terranova ha voluto fare a un’altra grande scrittrice contemporanea, Elena Ferrante, che nel suo ultimo saggio  I margini e il dettato (E/O, 2022) invoca il salvataggio del “patrimonio letterario” femminile affinché le parole delle donne riescano a “smarginare” le forme prestabilite che hanno ereditato da una letteratura prevalentemente maschile. Non è un caso che in ben due punti del romanzo, Terranova usi l’aggettivo “smarginato”, un termine chiave della poetica ferrantiana cui la scrittrice messinese pare dunque ricollegarsi nel progetto di costruzione del soggetto femminile.

Restituire la voce a Barbara è allora parte di un disegno più ampio che mira a ripristinare la tradizione declinata al femminile e, contemporaneamente, la fiducia nel “senso del sacro, del magico, che avvertiamo nel confronto con quello che non possiamo controllare”, funzione affidata da Terranova ai suoi tarocchi nell’architettura del testo. Inquietante lo sguardo di Nicola, testimone bambino, maschio e innocente che mette in discussione logiche binarie di ripartizione delle responsabilità: vittima – come molti uomini – di un amore materno asfissiante in cui rimane intrappolato suo malgrado, fino a quando scoprirà che altrove si può amare in modo diverso. Nella vita prima del terremoto Nicola è soffocato, anche letteralmente, dall’aroma intenso e onnipresente del profumo di bergamotto creato e venduto da suo padre. È un’essenza odiosa e opprimente che il bambino si lascerà alle spalle quando troverà una vera famiglia dopo il sisma. A questo proposito, si può dire anche che Trema la notte, come già suggerisce il titolo, è un romanzo fondato sulla saturazione dei canali percettivi–l’udito, la vista, l’olfatto e il tatto. La pienezza sensoriale avvolge i lettori immergendoli nelle vicende raccontate, nello spazio-tempo messinese ma anche nello spazio-tempo universale di un cataclisma.

Tornando infine alla cornice narrativa del romanzo – il primo e l’ultimo capitolo che sorreggono la trama – troviamo in essa un aspetto metatestuale che conferisce a Barbara l’autorità di scrittrice che racconta non solo le proprie esperienze da figura emarginata in quanto donna, ma anche quelle degli altri, compreso il piccolo Nicola. È la voce di Barbara che contiene, e difatti potenzia, la voce di Nicola, rendendola perciò udibile, narrabile. Considerando l’architettura del testo e lo schieramento strategico dei tarocchi quale elemento strutturale e paratestuale, la cartomante risulta non altri che Barbara. Scegliendo e disponendo i tarocchi, la scrittrice si avvale quindi anche del potere di divinare e di narrare le vite altrui per far sì che la notte smetta di tremare.

Enrica Maria Ferrara & Stiliana Milkova

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