Da Cicerone a Ricoeur, come si è evoluta la figura del “traduttore”.
La lingua è il modo più antico utilizzato dagli uomini per veicolare culture e mondi diversi.
L’antica Babele ci insegna che senza una giusta comunicazione la vita perde il suo significato e diventa un’accozzaglia di incomprensioni.
L’arte della traduzione si pone il compito di mediare fra le diverse culture e ha rivestito sempre un ruolo chiave nella storia dell’uomo.
Cicerone nel de optimo genere oratorum celebra la libertà del tradurre, puntando più sull’ “efficacia espressiva” rispetto alla letterarietà delle parole tradotte. Insomma, lui traduceva più per passione che per vera necessità. Infatti, secondo la sua opinione, i testi sarebbero dovuti essere letti e compresi in lingua originale, ma purtroppo c’erano alcuni uomini non abbastanza colti che necessitavano di essere educati e avevano bisogno di leggere i testi nella propria lingua per capirli.
In una posizione diversa da quella ciceroniana si pone il filosofo francese Paul Ricoeur, che nel saggio Il Paradigma della Traduzione afferma che la diversità linguistica e culturale fra un testo di una determinata lingua e la sua possibile traduzione porta il traduttore, che se ne fa garante, in una condizione di rischio e difficoltà. Tradurre non è solo riproporre fedelmente il testo -principio fondamentale per Ricoeur-, ma è saperlo collocare nel tempo e nello spazio. Il filosofo definisce un privilegio poter accogliere un estraneo nella propria lingua madre e, per risolvere la possibilità di trovarsi di fronte a possibili passaggi intraducibili, lui propone la costruzione dei comparabili, affinché si mantenga fede sia all’eterogeneità dei vari linguaggi che ai diversi tempi storici in cui i testi sono collocati.
Ricoeur cerca incessantemente la traduzione perfetta tanto quanto Cicerone la fugge.
Seppur queste due concezioni possano apparire lontane fra loro sono accomunate da un unico obiettivo: l’arricchimento linguistico, fondamentale al fine della creazione di un linguaggio globale. Per Cicerone il punto focale della conoscenza plurilinguistica sta nella possibilità di essere riuscito ad ampliare il dizionario latino con molte parole derivanti dal greco; similmente Ricoeur e i traduttori moderni, sempre più in ombra e silenziosi, cercano di amalgamare le culture linguistiche differenti per trovare un punto di contatto che permetta la possibilità di rendere il lessico sempre più globale. Quasi a voler far proprio ciò che si legge per dare una veste che non solo ne permetta l’assimilazione ma consenta anche un arricchimento della parola stessa.
Insomma, la fedeltà ai testi e la possibilità di poterne ottenere una nuova visione in un’altra lingua forse non esisterebbe se la creatività non giocasse il ruolo dell’amante infedele.
Perché, a mio avviso, l’arte del tradurre concede la possibilità di dare a un testo una nuova ricchezza in un’espressività che non è la propria. È, forse, impossibile riproporre la fedeltà oggettiva in un passaggio da una lingua all’altra, soprattutto perché nel linguaggio esistono sfumature -sottilissime ma fondamentali- che rendono ogni accezione, frase o parola pressoché unica.
Quindi, se come dice Cicerone, sarebbe giusto avvicinarsi a un’opera nella sua lingua madre (chi non vorrebbe leggere il grande Tolstoj in russo?) è altrettanto vero che risulta necessaria la trasposizione dell’opera tramite traduzioni, altrimenti si perderebbero fette intere di grande letteratura, che non potrebbero essere date in pasto al grande pubblico. E per farlo al meglio, il traduttore deve diventare un tutt’uno con lo scritto, metabolizzarne le intenzioni e renderle affini alla nuova veste che si sceglie di dargli. Perché lo scheletro di un’opera, se ben delineato e preciso, rimane sempre lo stesso, ma ciò che ne permette l’evoluzione in capolavoro è, anche e soprattutto, la capacità di adattarsi ad altri linguaggi, ad altre culture e ad altre società. In questo il traduttore svolge un ruolo assolutamente fondamentale, in quanto conoscitore del pubblico internazionale e del ruolo che quel determinato scritto può e deve avere nella lingua in cui viene calato.
Per concludere, mi permetto di affermare che Ricoeur avesse ragione nel cercare la traduzione perfetta, ma che quest’ultima è ritrovabile solo nei giusti compromessi con le affinità elettive delle varie lingue.
Perché la parola è potere e il potere può essere amministrato in maniera appropriata solo se chi lo subisce ha i giusti strumenti per capirne le intenzioni.
Allego due mie poesie che richiamano un po’ il “tradurre” i sentimenti moderni accostandoli all’antico.
Due donne, due sovrane, una con un nome storico, l’altra che le racchiude tutte.
Didone
Il passare del tempo e della gioventù
ti fecero regina di somme virtù.
L’amore ti trasse nell’inganno mortale
di chi vive impudente ogni suo male.
Elissa, dallo sguardo fertile e gioioso,
ti si avvinghia l’eroe dal cuore glorioso.
E così il tuo corpo divenne dannato,
poiché concesso a un destino segnato.
Potente donna, come imponente sovrana,
non lasciare che il fato ti faccia spartana.
Regna sul volere dell’intrepida freccia
e allontana colui che vuole far breccia.
Può così crollare l’onore
della somma e indomita Didone?
Può un amante solitario a morte
legare lei che di Sichèo fu la consorte?
Ma Cupido è sì forte, armato e brigante,
il suo filtro scalfì il tuo cuor di diamante.
Ti lasciasti crollare a chi poi ti derise,
la cui spada e l’addio presto t’uccise.
La femmina donna
Alta la testa, veloce il passo;
corri, distacca, allontana quegli occhi.
Non è mai colpa di chi rincorre,
ma di chi con foga ammalia le voglie.
Perché madre, donna, schiava,
nessuna, per voi, merita pena.
Uguali o diverse, stanche o ritrose
sono coloro che vanno punite.
Di un peccato lontano e tremendo
pagano colpa col parto e il tormento.
Dal medioevo alla guerra del Golfo
poco più che signora è l’austera matrona.
Dea, vergine, diva e divina,
è cambiata nel tempo la sua figura,
ma non nelle menti di chi l’ha osservata:
sempre e solo femmina giusta.
Quindi, oggi, scappa dal ladro
della tua purezza senza vergogna.
Fuggi da chi ti vuol fare violenza,
attenta sempre alla scopa e la diligenza.
Oh madre, donna, smetti d’essere schiava
di convenzioni senza premura.
Perché è di te che la natura ha paura
perché senza di te somma sventura.
Per il maschio meschino senza prole,
che piangerebbe il tuo fianco dismesso,
se solo capisse il valore lampante
del tuo essere unica, non solo un’amante.
Donaci l’ardore della tua libertà,
espressione e colore di quel che sarà
la vita futura di una femmina onesta
forte e sicura con solo alta la testa.
Francesco Lisbona