La poesia che turba. Intervista a Claudio Pozzani.

 

La poesia che turba.

 Intervista a Claudio Pozzani a cura di Anita Piscazzi

Claudio Pozzani, poeta, romanziere e artista, è nato a Genova nel 1961. Le sue poesie sono tradotte e pubblicate in oltre dieci lingue e si è esibito nei più importanti festival e rassegne internazionali.

Pozzani ha creato nel 1995 e dirige tuttora il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole spalancate”, considerato uno degli eventi poetici più importanti in Europa. Nel 2001 ha fondato sempre a Genova la Stanza della Poesia a Palazzo Ducale, che organizza ogni anno oltre 150 eventi gratuiti. Nel corso degli anni ha ideato e organizzato numerosi eventi di poesia internazionale in Francia, Finlandia, Belgio, Giappone, Austria e Germania. È co-fondatore della piattaforma Versopolis che raggruppa quattordici festival di poesia europei.

Tra le sue opere più recenti:  il libro-CD La marcia dell’ombra (CVTrecords), il saggio L’orlo del fastidio – Appunti per una rivoluzione tascabile e infettiva (Liberodiscrivere, 2017), e la raccolta antologica Spalancati spazi – Poesie 1995-2016 (Passigli,2017), il DVD La realtà della speranza.

Nel 2019 il regista Fabio Giovinazzo ha realizzato il film “L’anima nel ventre” basato sulle sue poesie.

Nella poesia contemporanea italiana sei considerato un poeta atipico, visionario e “fuori posto”, per citare un tuo verso: Forte con i forti/debole con i deboli. Quanto c’è di vero in questo?

Direi che è uno degli aspetti principali del mio carattere e della mia vita. Odio profondamente due cose, l’arroganza e l’ignoranza e questo è un periodo storico nel quale le vediamo spesso unite e trionfanti. Come autore ho pagato in Italia la mia indipendenza e insofferenza verso le « parrocchie » poetiche, anche se sono tra gli autori più invitati e tradotti all’estero; come organizzatore di festival sconto la mia coerenza nelle scelte. Spesso se si seguono le mode si ottiene più visibilità nei media che normalmente trattano la poesia con superficialità, ma non si dura per 27 anni.

Roberto Mussapi nella prefazione al tuo ultimo libro “Spalancati spazi” per Passigli Editori scrive così: Pozzani danza sulla pagina con il ritmo della sua voce da poeta blues, canta narrando, sincopando, assolutamente non rapper: è un trovatore dell’età del rock. Ti ritrovi in questa definizione?

Assolutamente. La poesia è ritmo, significato, suono. Adoro fare letture dal vivo perché posso dare un corpo all’anima delle mie poesie, utilizzare la mia voce e i miei gesti per sagomare le parole. Adesso appena qualcuno mette del ritmo in ciò che scrive e ha presenza scenica viene etichettato da « rapper », ma il flow è nato qualche secolo prima del rap. E poi la mia cultura musicale è il rock e la musica sperimentale che offrono innumerevoli variazioni e differenze, mentre trovo il rap per lo più bidimensionale. Detto questo, la priorità in una poesia è il testo e deve funzionare anche sulla pagina.

La poesia per te è più Saudade o più Spleen?

Direi che sono entrambi elementi fondamentali per la poesia. Poi, come gusto personale di lettore preferisco la poesia più spleen… La poesia dei buoni sentimenti mi annoia e ci sento puzza di furbizia e d’altronde è quella che fa vendere di più. Preferisco gli autori che scendono all’inferno e ascendono al cielo senza paura di bruciarsi o di vertigini. Non mi interessa la poesia che rassicura, preferisco la poesia che turba.

Nei tuoi reading si percepisce una ricerca nella voce, nel ritmo, nell’intensità espressiva a volte visionaria. È frutto di un tuo percorso particolare che stai portando avanti o cosa?

Mi sono sempre appassionato alle ricerche sulla voce come Demetrio Stratos e le ho applicate su di me soprattutto all’inizio: diplofonie, fischi, uso della glottide sono cose che fanno parte del mio bagaglio di studio come d’altra parte i meccanismi sintattici. Per me la poesia si scrive due volte, con la penna e con la voce.

Sei anche un musicista e compositore, nel 1986 hai fatto parte del gruppo rock dei Cinano. Quando la poesia o entrambe le arti hanno messo radici dentro di te?

Ho iniziato a comprare dischi quando avevo 12 anni, i primi sono stati Pink Floyd, Santana, Banco del Mutuo Soccorso e Battiato, quando era sperimentatore con Pollution. La poesia è arrivata dopo. Musica e poesia si sono incontrate in me quando ho iniziato a suonare la chitarra verso i sedici anni e ho iniziato a comporre canzoni. La scrittura di testi tuttavia non è poesia, ha un processo creativo differente. Come mi aveva detto De Andrè, il testo è un 50% di un tutto, la poesia deve essere il 100%, contenere in sé ritmo, musica, immagini, gesti. Ho iniziato quindi a separare nettamente le due cose e prima di iniziare a scrivere ho letto tanta poesia, cercavo di leggere il più possibile e di tutto, seguendo poi i miei gusti. Penso che in me la proporzione tra poesie lette e scritte sia almeno di 1000 a 1.

Sono l’apostolo lasciato fuori dall’Ultima Cena/Sono il garibaldino arrivato troppo tardi allo scoglio/di Quarto/Sono il Messia di una religione in cui nessuno crede. Scrivi così in Sono dal tuo ultimo libro di poesie già citato. Ma chi è davvero Claudio Pozzani?

Mi considero un uomo sereno. Ho lavorato molto su di me e ho raggiunto una consapevolezza che mi fa stare bene anche in un mondo che considero sempre più marcio nelle sue fondamenta e completamente irreversibile. Ho fatto mia la frase di Ferlinghetti « la migliore vendetta è vivere bene »: non conosco né invidia né odio. So di essere fuori posto e che i motori immobili della mia esistenza arte, cultura, passione, bellezza, curiosità intellettuale sono considerati inutili orpelli dalla stragrande maggioranza degli abitanti della Terra. Peggio per me che devo vivere qui ma molto peggio per loro che non sanno ciò che si perdono…

Nel 1983 hai fondato il CVT “Circolo dei Viaggiatori nel Tempo” che un po’ ti rappresenta. Di che cosa si tratta?

Il CVT è nato nel 1983 come locale alternativo. Potevi venire e come sceglievi un panino, una birra o un cocktail (ne avevo inventato una trentina) potevi scegliere di vedere un film o un concerto da una lista fornitissima. Insomma, era un YouTube vivente ante litteram. L’idea era una macchina del tempo: potevi vedere l’arte del passato ma allo stesso tempo sperimentavamo la videoarte, l’olografia, la computer grafica, nuove sonorità e scritture. Solo studiando e conoscendo ciò che è venuto prima di te puoi superarlo ed evolverti. Che tristezza vedere giovani artisti che non sanno nulla di chi li ha preceduti e si credono originali. Ci credo: non conoscono altro che quello che fanno loro e quelli della loro cerchia. La nostra era la generazione No future. Mi sembra che ora abbiano aggiunto anche No past. Comunque, dopo 15 anni ho chiuso il locale e il CVT si è dedicato completamente al Festival e altri eventi in Europa.

Il Festival internazionale di poesia di Genova è una rassegna di poesia, letteratura e musica di carattere internazionale che si tiene annualmente a Genova. Nel 1995 hai creato e sei diventato direttore artistico di questo festival, portando nomi come Derek Walcott, Wole Soyinka, Czesław Miłosz, Álvaro Mutis, Gianmaria Testa, Lawrence Ferlinghetti e tanti altri. Come è nata l’idea di organizzare un festival e come si è evoluto in tutti questi anni?

Ho cominciato a organizzare reading nel CVT, poi nel 1995 ho pensato che mancasse in Italia un grande festival di poesia internazionale e, con entusiasmo e incoscienza, abbiamo lanciato un progetto di festival lungo 22 giorni consecutivi, in vari luoghi di Genova e autori da tutto il mondo. Per fortuna il nostro progetto fu scelto dalla Commissione Europea e quindi riuscimmo a farlo davvero. Ci diedero il contributo in Ecu, una moneta virtuale europea, il papà dell’euro… Poi, piano piano la manifestazione si ingrandì, arrivarono grandi poeti e sponsor che credevano nella crescita culturale della città. Altri tempi… A quel tempo i media e la stampa non parlavano più di poesia, le pagine culturali stavano iniziando a diventare sempre più orientate all’intrattenimento. e fare un festival era una novità: la moda dei « festival di qualsiasi cosa » è arrivata qualche anno dopo. Penso che il segreto di durare tutti questi anni ad alti livelli sia stato quello di aggiornarsi e rinnovarsi sempre senza per questo rincorrere mode del momento e senza banalizzare la poesia nel tentativo di « renderla accessibile ». Puntare sulla qualità paga sempre, alla lunga.

Non è facile occuparsi di cultura in un momento in cui bisogna fare i conti con i forti e i continui tagli proprio in questo settore e soprattutto in un tempo sospeso che è stato afflitto dalla chiusura forzata pandemica. È stato difficile per te continuare a crederci e a portare avanti la macchina organizzatrice degli eventi?

Purtroppo ci sono sempre meno investimenti sulla cultura e la poesia in generale è l’arte più svantaggiata: non dimentichiamoci che l’Italia è uno dei pochi Paesi in Europa che non prevede contributi ministeriali per poesia e letteratura. La cultura ormai è intesa come un’appendice del turismo. Si è verificato ciò che diceva Hannah Arendt: la società di massa non vuole cultura, ma svago. La pandemia in questo è una cartina di tornasole. Riguardo al coprifuoco, nelle migliaia di interviste e interventi tutti parlano di cene e ristoranti ma quasi nessuno si lamenta di non poter andare a vedere uno spettacolo. E poi il Recovery Plan: trovo sia scandaloso che su 240 miliardi alla produzione culturale siano andati esattamente 0 euro. Quei pochi soldi per la cultura sono andati al patrimonio, che è sacrosanto visto il Paese che siamo, ma a chi produce cultura e spesso lo fa in un perenne stato di incertezza, non si è minimamente pensato. Eppure sono almeno 300.000 persone che organizzano festival, che si occupano di teatri medio-piccoli, che gestiscono sale di registrazioni o suonano, e altri ancora e che, dati economici alla mano, fanno moltiplicare per 10 ogni euro investito. Poi c’è il FUS, Fondo unico per lo Spettacolo che a mio avviso si dovrebbe chiamare Fondo dello Spettacolo Unico, visto che per il 90% si occupa di teatro (prosa e opera) e si dimentica di tutto il resto. Infine, la crisi generale ha portato le aziende a tagliare le sponsorizzazioni culturali.

Quali sono stati