Intervista a Paolo Bacilieri, fumettista

Paolo Bacilieri, nato a Verona nel 1965 ma milanese di adozione, è uno dei più importanti fumettisti Italiani. Diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, disegna e scrive fumetti dal 1982, collaborando inizialmente con Milo Manara. Nel1986 esordisce come autore con la storia “Il tesoro degli Imbala” e pubblicata in Francia su “A Suivre” (Casterman), rivista edita in Italia da Corto Maltese. Sempre per Casterman, nel1988 crea il personaggio “Barokko”, proposto in Italia dalla rivista “Comic Art”. Negli anni seguenti lavora sia per il mercato francese, sia per quello italiano, pubblicando per le riviste “Blue” e “Animals”, entrambe per Coniglio Editore, Comic Art e The Artist. Nel 1999 inizia la sua collaborazione con la Sergio Bonelli Editore, realizzando le serie “Napoleone”, “Jan Dix, Dampyr”, “Le Storie”, “Dylan Dog”. Ha pubblicato “Le tresor des Imbalas” (Casterman 1988), “Barokko” (Casterman 1993, “Black Velvet” (2004), “Durasagra-Venezia über alles” (R&R 1994, BlackVelvet 2006), “Phonx” (Blue, Coniglio Editore, 1995), “The Super Maso attitude” (Phoenix, 1996), “Zeno Porno” (Kappa Edizioni, 2005), “La magnifica desolazione” (Kappa Edizioni, 2007), “Canzoni in A4” (Kappa Edizioni, 2008), “Napoleone” (Rizzoli, Lizard, 2010), “Phonx” (BlackVelvet 2011), “Adiòs muchachos” (Casterman 2011, Rizzoli Lizard 2012, Verlag Schreiber&Leser 2012, Norma 2012), “Sweet Salgari” (Coconino Fandango 2012, Delcourt 2013), “FUN” (Coconino Fandango 2014, SelfMadeHero 2017), “More FUN” (Coconino Fandango2016), “Palla” (Hollow Press 2016), “Tramezzino” (Canicola, 2018), “Ettore&Fernanda” (Coconino, 2019). Ha vinto prestigiosi premi, tra i quali: Premio Albertarelli (ANAFI 1986), Premio Jellow Kid (Roma 2003), Gran Guinigi (Lucca Comics 2006), Premio Boscarato miglior libro italiano 2012 (TrevisoComics), Premio U Giancu 2012, Premio Micheluzzi (miglior disegnatore 2015, 2018), Gran Guinigi Miglior Storia Breve, Lucca 2017).

Paolo, hai esordito giovanissimo con Milo Manara, hai collaborato con Bonelli Editore e poi hai creato storie tue, consolidando il tuo canone. Da molto tempo sei un indiscusso autore di riferimento. Considerando l’evoluzione del linguaggio fumettistico, ci racconti il tuo percorso di autore e di collaboratore?

Ho scritto e pubblicato il mio primo fumetto nel 1980, prima di conoscere Milo Manara. Si trattava di un breve racconto, “Fortunato”, e lo pubblicai su “Il Piccolo Missionario”, una rivista cattolica veronese. A quell’epoca ero un appassionato lettore dei fumetti di Sergio Toppi (uno dei maestri del fumetto italiano , Ndr), che imitavo. L’anno successivo ho incontrato Milo Manara – che abitava a breve distanza da casa mia, in Valpolicella, sulle colline veronesi. Lo ritenevo un mito, e mi sarei aspettato che abitasse a Tangeri, o a New York, mentre quell’autore, già famoso, viveva a pochi passi da me! È stato un incontro fondamentale; l’ho sempre considerato il mio mentore, un autore di altissimo livello che mi ha immediatamente dato fiducia, trattandomi come un collega suo pari. Manara mi ha portato subito a Lucca, al Festival del Fumetto, e, nel tempo, con l’esempio, mi ha trasmesso alcuni principi importanti che riguardano questa attività – primo fra tutti un aspetto etico fondamentale: il fatto che, in questo mestiere, l’unico valore che conta davvero, quello che ti permette di essere autore e professionista riconosciuto, è la qualità del tuo lavoro; per capirci, è fondamentale avere idee interessanti, originali, e la capacità di esprimerle in modo efficace. Il fumetto, da quel tempo ad oggi, è radicalmente cambiato. Negli anni ’80 era soprattutto una faccenda per ragazzini, un genere per giovani e giovanissimi, con grandi autori, altissime tirature e molte riviste specializzate; poi, gradualmente, esso ha acquisito una fascia di lettori più ampia, includendo l’età adulta. A metà degli anni ’90, in Italia, la morte di Andrea Pazienza, un’icona indiscussa nel nostro ambito, ha decretato la fine di un periodo di grande fermento e l’aprirsi di un un vuoto, un deserto, cui ha fatto seguito una vera e propria metamorfosi di questo genere: sono nati, con un percorso abbastanza tortuoso, quelli che oggi vengono chiamati graphic novel, storie non seriali e concepite come un racconto finito, un romanzo. Il mio primo graphic novel è stato “Durasagra” (R&R, 1994); in quel periodo, ne venivano pubblicati una decina circa all’anno, mentre oggi ne escono centinaia. Dopo questo cambiamento, che definirei non tanto generazionale quanto epocale, il fumetto ha visto mutare sia i propri stilemi narrativi, sia il proprio posizionamento editoriale (oggi è presente in libreria e non più solo in edicola o su riviste) ed affronta tematiche più ampie, complesse, entrando in quella che io definisco la sua età adulta.

In “Sweet Salgari” hai compiuto un’operazione narrativa molto raffinata che, a mio parere, rappresenta una sfida importante: ti sei soffermato sulla vita di Salgari, sulla sua quotidianità familiare, sul paesaggio urbano che lo circondava, senza porre in primo piano le sue storie. Qual è stata la genesi di questa tua scelta?

Questo libro ha avuto una lunga gestazione e non ti nascondo che, all’inizio, avevo avuto l’idea di includere alcuni personaggi salgariani, i più famosi e conosciuti; poi ho capito che il fumetto avrebbe acquisito più forza narrativa mantenendo come protagonista Salgari stesso, un personaggio decisamente anti-eroico, ed associando alle mie scene, che si svolgevano in ambienti a noi familiari, come la Torino degli inizi del ‘900, alcuni passi dei suoi romanzi. L’associazione, il cortocircuito tra la narrazione salgariana del Gange e la descrizione del Po che, a Torino, scorre in un paesaggio tipicamente italiano, ha generato una riflessione per me importante: questa dialettica rappresentava la visualizzazione della distanza siderale tra il mondo avventuroso dei libri di Salgari e la realtà, italiana, per nulla esotica, in cui egli aveva trascorso la sua intera esistenza.

“Fun” e “Tramezzino” sono opere caratterizzate da un’attenzione dedicata al dettaglio del segno architettonico, del paesaggio urbano. Questo aspetto supera la funzione diegetica, descrittiva, e diventa complice del ritmo della stessa narrazione: l’ombra evocatrice di un edificio, la nitidezza cristallina delle linee della sua facciata conducono il lettore per mano, ritmano la cadenza della storia, ciò che accade. Possiamo parlare di sinestesia? In che modo, in queste opere, scrittura (lettering) e grafica dello sfondo si potenziano?

“Fun” e “Tramezzino” hanno in comune il fatto di porre l’ambiente urbano in primo piano. L’attenzione al paesaggio era già presente in “Barokko”, così come in “Durasgra”; il paesaggio, talvolta sottovalutato da alcuni miei colleghi, è quindi diventato per me un aspetto primario, soprattutto dopo il mio trasferimento a Milano, avvenuto circa vent’anni fa. Io sono cresicuto a Molina, una località idilliaca in provincia di Verona, in un ambiente diametralmente opposto a quello milanese, caratterizzato da colline, prati, cascate d’acqua e un’architettura spontanea; arrivato a Milano, il paesaggio urbano e lo skyline milanese mi hanno immediatamente affascinato. Questo salto è stato per me di grande ispirazione, per ciò che riguarda il mio modo di rappresentare la città in cui vivo.

Milano, nelle tue ultime opere, riveste il ruolo di paesaggio, di luogo evocatore. Non è mai uno spazio incolto, primordiale, ma esiste come una storia nella storia, ha una vita propria. In “Ettore e Fernanda”, che narra la vicenda di Ettore Modigliani e Fernanda Wittgens (direttori del Museo di Brera), Milano e Brera divengono addirittura una voce narrante fuori campo: hai disegnato una città e le hai dato vita, l’hai resa a sua volta narratrice. La metropoli narra con un’intensità tale da determinare gli avvenimenti della trama. Come potresti definire il tuo rapporto con Milano e la sua bellezza? La rappresenti con scorci metropolitani ai quali associ dettagli di grande intimità provinciale: quale aspetto, tra questi, prevale nel tuo quotidiano?

Il mio intento, in quest’opera, è stato appunto quello elevare Milano, la città stessa, a personaggio delle mie storie. Per me Milano è una metropoli che riesce a centrifugare, a rielaborare tanti aspetti della provincia italiana di molte aree d’Italia, trapiantate qui per motivi di immigrazione, di lavoro; queste microaree hanno poi ricreato a Milano tanti piccoli angoli, a loro volta provinciali. Un tessuto simile a quello del vestito di Arlecchino, che si contrappone, in modo antitetico, contraddittorio, alle immagini della Milano punteggiata di grattacieli e centri direzionali; nella città degli anni ’60, intorno al Pirellone si potevano scorgere piccoli orti, un vigneto, immagini che convivevano con il futuro, con l’architettura della metropoli, appunto. Milano è l’unica città italiana che ti permette di diventare suo cittadino a tutti gli effetti, milanese: nessuna città ti concede, per contro, di diventare romano o napoletano, torinese; e, questo carattere di luogo capace di assorbire, è un aspetto dominante della sua personalità, all’interno della quale convivono, appunto, metropoli e intimità.

“Fun” vede l’incontro tra l’enigmistica, elevata ad opera d’arte grafica, e il racconto. Linee e eventi si intersecano e nasce un incontro, la circostanza, la genesi di una parola o di un fatto narrabile. Il libro è una serie di storie che si incrociano tra loro con un mentore, Pippo Quester, che collega le varie parti. Si passa quindi dalla percezione grafica (e narrativa) del cruciverba a quella del fumetto, con una progressione costante, una tensione che non concede tregua al lettore. Quali sono i punti di contatto tra il linguaggio dell’enigmistica – il cruciverba – e quello del fumetto?

Ho deciso di fare questo libro perchè ho scoperto che, sia il fumetto sia il cruciverba, sono nati nello stesso luogo, gli Stati Uniti della fine dell’800; inoltre, essi erano inizialmente pubblicati sugli stessi giornali e diffondevano una sorta di cultura unificata alle persone di tutto il mondo che, in quegli anni, approdavano a New York. Sono stati, per circa un secolo, l’uno accanto all’altro. Ho quindi riscontrato molte connessioni e affinità tra questi due generi espressivi, ed ho pensato di creare dei fumetti che avessero una struttura – non solo grafica ma anche narrativa – che richiamasse il cruciverba. Ho associato alla macrostoria del cruciverba molte storie parallele, verticali e orizzontali, che creano una sorta di griglia, di trama, nonostante non abbiano (come accade, appunto, con le parole del cruciverba) alcuna attinenza l’una con l’altra. La cosa che più mi affascina, pensando a questi due generi, è il rapporto di assoluta intimità che, sia il cruciverba, sia il fumetto, stabiliscono con il lettore: il lettore è l’unico protagonista che, di fronte a questa griglia del cruciverba, cerca soluzioni e connessioni, e lo stesso avviene con il fumetto, che stabilisce un rapporto esclusivo con chi lo sta leggendo. È un rapporto unico, silenzioso, quasi ipnotico. Piero Bartezzaghi, il più importante autore di cruciverba italiano, diceva che nella disposizione delle caselle nere del cruciverba c’è una bellezza, un’armonia; a suo parere, la disposizione di queste caselle doveva appunto avere una valenza estetica.

“Palla” racconta la storia di un amore corporeo, carnale, e tratta del rapporto tra  il desiderio, l’ineluttabilie fine di tutto ciò che è vivo ed esiste, e la resurrezione di Cristo. È un fumetto straniante, graficamente diverso da altre tue opere, nel quale la trama si arricchisce di alcuni passi del Vangelo di Giovanni in un intreccio di sacro e profano. Puoi raccontarci la genesi di quest’opera?

Nel 2016, avevo deciso di cogliere la richiesta di Hollow Press, una casa editrice italiana che pubblica storie underground di autori italiani e stranieri. Ho recuperato un soggetto che risaliva a vent’anni prima, la storia di una creatura sferica che veniva a contatto con un ragazzo, ed ho pensato di mettere questa idea a confronto con alcuni passi del Vangelo di Giovanni e di Luca che riguardano la Resurrezione, la parte del Vangelo più surreale, quasi underground – questo è il mio punto di vista, ovviamente: non vorrei sembrare sacrilego! Ho quindi posto a confronto queste due linee narrative, cercando di farle collidere, scontrare.

Il fumetto è il luogo della cross-medialità ante litteram, il terreno sul quale il segno grafico e il suo significato si incontrano con la parola, il linguaggio scritto e, da questa unione, nasce l’opera. Quanto è cambiato, questo rapporto dialettico, con l’avvento della cultura digitale – attualmente dominante? Possiamo parlare di una sorta di resistenza del fumetto o, a tutt’oggi, si è anch’esso dovuto piegare a questo nuovo modo di concepire il confine tra realtà e scenario immaginario?

Il fumetto è un genere ibrido che ha sicuramente grandi capacità di adattamento e sopravvivenza. Restano, molte sue potenzialità, sia artistiche, sia comunicative, ancora inesplorate fino in fondo, e forse la cultura digitale offre nuove opportunità per farlo. Il fumetto si trasforma nella misura in cui noi, autori di fumetto, ci stiamo trasformando come esseri umani, e la digitalizzazione ci sta sicuramente cambiando in termini di sensibilità e idee – non voglio assolutamente dare un connotazione negativa a questo cambiamento, sia ben chiaro. Inoltre, un aspetto del web da non sottovalutare è l’attenzione che esso ha dato al fumetto: la cultura digitale ha offerto spazio a molti autori giovani, che pubblicano opere molto interessanti su web-magazine ed altri contenitori culturali digitali. Il fumetto è un’arte semplice, e questa sua semplicità e forza comunicativa gli permetterà, credo, di sopravvivere, come genere, a qualsiasi rivoluzione tecnologica.

In “Tramezzino” richiami l’attenzione del lettore focalizzando la sua visione su una finestra di un alto condominio milanese, sugli interni: ci inviti a guardare e ad osservare creando un climax ascendente che culmina nelle scene di intimità dei protagonisti, Daddo e Skilla. Nelle tue opere non c’è mai ridondanza o autocompiacimento: le storie e le immagini seducono il lettore con le immagini, le parole e la nostalgia da esse evocate in quanto tali, senza trucchi macroscopici o situazioni sensazionalistiche. Quali sono le basi estetiche che caratterizzano questo tuo modo di narrare, che credo si possa ormai definire il tuo canone?

“Tramezzino” appartiene alla categoria dei “fumettoni”, quelli che noi chiamiamo “albettoni”, album giganti che si prestano, come formato, per porre l’architettura al centro dell’attenzione. In quest’opera, l’architettura milanese della seconda metà del secolo scorso è protagonista indiscussa. Ho utilizzato spesso e volentieri un’inquadratura perfettamente ortogonale, per creare quasi un effetto di diffusione della griglia architettonica, esasperando l’aspetto sensuale dell’architettura con una rappresentazione quasi feticistica; se mi concedete il termine, ho cercato di fare della pornografia architettonica. Un’abitazione contiene persone, cose vive e cariche di significato emotivo, ed ho sottolineato l’aspetto vitale di ciò che disegnavo e narravo.

Il tuo fumetto, oltre che avere una valenza narrativa, letteraria, può assolvere una funzione politica – non nel senso che si sostituisce alla politica, ma in quanto è apertura su nuove dimensioni politiche, visione sul mondo che ci circonda?

Il fumetto ha avuto ed avrà sempre una valenza politica. Le mie opere sono il risultato di un’educazione derivata dalla mia lettura dei fumetti stessi: per farti un esempio, quando, in “Corto Maltese”, il fumetto creato da Hugo Pratt, io incontro Cush, il personaggio che incarna il fondamentalismo islamico, leggendo la sua storia mi potrò creare, di questa tipologia umana che i media stigmatizzano come terrorista, un’idea molto più ampia; avrò un’immagine più profonda di questo personaggio, immagine che supera gli stereotipi e le banalizzazioni. Questa educazione fumettistica, che io stesso ho assorbito, incide sicuramente molto su di me come autore, non ho dubbi.

Intervista realizzata da Corrado Passi
(credito fotografico di copertina Ferdinando Scianna)

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