La zia Berta era un’arzilla vecchietta, a me prozia, che viveva in un’antica casa del ghetto ebraico di Ferrara. Da bambino andavo a trovarla, insieme a mia madre o mia nonna, e mi piacevano sia le sue maniere, garbate e affettuose, sia la sua casa con l’arredamento anni ‘30 e i preziosi pavimenti in legno scricchiolante. Ricordo che chi mi accompagnava mi prendeva in braccio e dava a me l’onore di suonare il campanello; si sa che i maschietti amano i marchingegni elettrici. Probabilmente ora qualche elettricista ligio alle norme avrà modificato quel pulsante e il relativo impianto, ma quando lo suonavo io negli anni Settanta era lo stesso che trent’anni prima. In una tremenda notte del 1943, quello stesso pulsante fu insistentemente premuto da un rappresentante delle forze dell’ordine incaricato di trarre in arresto Renato Finzi, marito ebreo della zia Berta, che per fortuna riuscì a fuggire in tempo dal cortile. Fu fortuna? Non soltanto: al momento della scampanellata, lo zio Renato trovò una corda ben legata alla ringhiera del balcone e lunga abbastanza perché si calasse senza rischi fino al piano terra, dove c’era una porta di servizio aperta. Non era stato un caso, la moglie aveva predisposto tutto in accordo con i proprietari della stanza di servizio che dava sul cortile.
Cosa dimostra questa breve storia ferrarese? Tanto.
Innanzitutto l’incredulità di Renato, simile a quella di tanti ebrei italiani che mai avrebbero immaginato di essere discriminati, poi perseguitati e infine mandati al macello; non fosse stato per la moglie e il vicino (“arianissimi”), non avrebbe mai trovato corde o porte aperte ad aiutare la fuga. In secondo luogo, l’episodio prova la presenza nell’Italia di allora di brava e pessima gente nello stesso tempo. Dando per scontata la lealtà della moglie, notiamo il coraggio del vicino, stretto fra la lauta somma promessa a chi denunciava gli ebrei e il rischio concreto di partire per i lager insieme a Renato. Con la brava gente abbiamo finito. La pessima è ben rappresentata dai suonatori di campanello: non S.S., nemmeno neosquadristi repubblichini, ma uomini vestiti con l’italianissima divisa dei tutori dell’ordine.
Sotto quel campanello ce n’era un altro, che suonava nella casa del fratello di Renato, Enzo. Per lui e per la sua famiglia si può ripetere tutto quello che è stato detto su Renato; anche loro riuscirono a fuggire. Uno dei figli di Enzo è Cesare, classe 1930, cardiologo in pensione. Quando ancora esercitava all’ospedale di Faenza, operò d’urgenza un turista tedesco in vacanza a Rimini. Annebbiato dagli anestetici e dai medicinali, il paziente inneggiava a Hitler dal letto d’ospedale, lasciando involontariamente intendere ai presenti le convinzioni politiche maturate in gioventù. Al momento della dimissione, il dottor Cesare Finzi lo volle incontrare nel proprio studio e, dopo essere stato coperto di parole di gratitudine, volle suonare a voce un campanello nella mente dell’interlocutore: “Si ricordi che a salvarle la vita è stato un ebreo”.
I campanelli della memoria
Michele Borsatti (Ferrara, 1971) insegna discipline umanistiche nelle scuole superiori dal 1998. Dopo gli studi in lettere classiche e filosofia, si è perfezionato sul Rinascimento italiano. Dal 1991 al 2002 ha collaborato in qualità di pubblicista con il giornale «Il Resto del Carlino» occupandosi prevalentemente di cultura e spettacoli e, dal 2010 al 2014, con la rivista «Rassegna dell'Autonomia scolastica». Ha collaborato con la casa editrice Palumbo alla redazione di manuali scolastici ed è uno degli autori del testo «Opre Gentili e amore intellettivo» su un secolo d'istruzione magistrale a Ferrara. Dal 1994 tiene conferenze e corsi per conto di diversi enti e associazioni culturali. In occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi e di Richard Wagner (2013), ha scritto il saggio «La Battaglia Prosegue» sul rapporto tra musica e letteratura tra il XIX e il XX secolo, pubblicato nel 2015 ne “I Quaderni del Cardello”. Attualmente insegna materie letterarie al Liceo Dante Alighieri di Ravenna.
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