La regola: fra retorica e persuasione in letteratura (II/III)

Ogni testo è imbevuto di regole grammaticali e retoriche o, per meglio dire, ne troviamo tracce in ogni sua pagina. Perché il linguaggio è costruito su basi grammaticali e retoriche; così come in antiche architetture – piramidi egizie e azteche, torri, muri di cinta – finiamo per trovare puntualmente rapporti matematici e geometrici: sequenze numeriche, sezioni auree, π. Un testo, dunque, risponde sempre a canoni della retorica (intesa come arte di rendere efficace la parola). La questione, per quel che mi riguarda, è capovolta. Per dirla con Pascal, la regola è di parlare (scrivere) giusto, non comporre figure giuste.
La poesia, l’immagine, l’espressività viene prima della regola che la codifica (codificherà). Prima è nato l’occhio che ha colto un misterioso legame fra la luce delle stelle e la luminosità di certi sguardi; prima è stata la mano, sono state le dita, a cogliere una somiglianza fra la morbidezza di un petalo e la pelle della creatura desiderata. Quando la voce l’ha saputo esprimere, il mistero si è disteso in una frase: i tuoi occhi sono stelle, la tua pelle è liscia come i petali di un fiore. Solo a questo punto sono nate l’analogia, la similitudine, la metafora. L’uomo che dava forma ai misteri a quel punto se ne è scoperto cantore: si può essere in grado di apprezzare una metafora anche non sapendo che è una metafora – ho detto altrove che un’analogia si coglie, non si realizza.
Più la scrittura è caratterizzata dalla tecnica, tanto più velocemente le regole che utilizza sono soggette a obsolescenza. Uno spot pubblicitario che crea una trovata efficace (i copywriter, loro sì, sono veri “creativi”), brucia il meccanismo che ne è alla base: le aziende che dovessero servirsene a loro volta, finirebbero per fare pubblicità al concorrente che l’ha utilizzato per primo.
Le regole si rinnovano costantemente, e, da un’epoca all’altra, rendono obsoleti dizionari di retorica o linguistica. E se non riescono a rinnovarle, i poeti possono superarle: «sono irresponsabili, godono del privilegio della licenza poetica» (Freud).
Lo scrittore ha vitale necessità di rinnovarsi – ognuno segue e inventa la propria voce – e nel rinnovarsi stimola la regola ad ampliarsi, mutare, aggiustarsi a nuovi canoni, restando pur sempre alla ruota della forza generatrice della parola. La Forza di Gravità regge ancora benissimo per spiegare certi fenomeni del macrocosmo, ma intanto in campo scientifico c’è fermento e la Gravità ha nuove descrizioni che hanno già corretto il tiro alla vecchia “regola”; partiti socialisti, in tutto il mondo, aderiscono a politiche liberali, costringendo storici, economisti e politici a ridefinire la nozione di socialismo.

Bisogna affinare occhio e orecchio per essere in grado di utilizzare la tecnica.
Ogni testo possiede una sua grammatica interna, generata durante la sua stesura, e vuole essere letto a partire da questa. Per esprimere le proprie sensazioni, per dare forma al suo bisogno, lo scrittore sceglie una prima parola; essa determina la successiva e quella un’altra, e così via: a ogni passaggio rendendo più fondata ogni ulteriore scelta (è lui che sceglie o è scelto? Oscar Wilde. «[…] il linguaggio […] è il padre, e non il figlio, del pensiero»). A tal proposito Carlo Bordini: «Non scrivo quello che so, ma lo so mentre lo scrivo, e per me la poesia è sempre fonte di continue rivelazioni. […] In questo senso sono abbastanza convinto che la parola venga prima del pensiero, sia un veicolo del pensiero. Non si scrive quello che si sa, ma lo si sa dopo averlo scritto». Ancora: «Sono d’accordo, in questo senso, con quanto scrive Perniola: “Il poeta non è il miglior fabbro, ma il miglior strumento”. Io non creo, sono creato. Non scrivo, ma sono scritto». Karl Kraus, nei suoi Detti e contraddetti, nelle pagine dedicate allo “Scrivere e leggere”, ribadisce come prima del pensiero è l’espressione: «Perché dalla parola mi balza incontro il pensiero giovane e forma retroattivamente la lingua che lo ha creato». Nulla è più effimero, pretenzioso e fallimentare dei Manifesti letterari: quanti sono sopravvissuti a se stessi?
Ogni regola esterna al testo è destinata a essere disconfermata: arriverà, prima o poi, qualcuno che la manderà gambe all’aria, inutilizzabile. Piuttosto che farmi soccorrere dal detto L’eccezione conferma la regola, direi che la regola è un insieme di eccezioni.

Un’altra regola chiara, scrivendo, (Umberto Eco docet), è quella di tenere a freno le metafore, soprattutto quelle tristemente preconfezionate come “il cielo che piove lacrime”: da aborrire. Ancora lui, Bordini: «Quell’estate piovve molto. Gustavo non sapeva se era il cielo a piangere, o se era il tempo che era stanco a cambiare continuamente le stagioni». Anche senza conoscere nulla di Gustavo, il personaggio del racconto che ha per sottotitolo “una malattia mentale”, la seconda parte dell’immagine costruita dall’autore, mitiga e sorregge la parte che vorremmo, potremmo, ancora una volta, imputare di ingenuità.
È possibile immaginare di scrivere un intero romanzo fatto tutto di frasi interrogative? Forse no. Probabilmente no. Ma certo che no. Padgett Powell l’ha fatto: Interrogative mood.
Si può scrivere un romanzo i cui capitoli potranno essere letti nell’ordine che si preferisce? In balia di una sorte avversa, di Bryan Stanley Johnson.
Si può, nel gioco del calcio, segnare di mano? No, il regolamento lo vieta. Eppure qualcuno l’ha fatto. Non parlo di modesti pedatori i quali, per avventura, abbiano urtato in area la sfera col braccio facendola carambolare in rete. Il 22 giungo 1986, nei quarti di finale del Mondiale di calcio messicano, Diego Armando Maradona segna col pugno, quindi irregolarmente. Ma El Pibe de Oro impone al mondo intero quel goal realizzato con la stessa abilità con cui segnava di sinistro e, in ogni caso, di testa. Tutti infrangiamo le regole, ma solo i grandi poeti fanno diventare le proprie sgrammaticature letteratura (o storia del calcio).
Quando ci poniamo ad analizzare l’efficacia di una frase, di un brano, per carpirne le regole, siamo obbligati a smontare la pagina per poterne mettere a fuoco il meccanismo e il suo funzionamento. Come sezionare un corpo su un tavolo anatomico: ci è chiaro come agisce ogni organo, i tessuti, le ossa, ma il corpo che abbiamo davanti a noi è senza vita. Il limite di ogni regola, l’errore a cui più facilmente conduce, è il suo (ab)uso. In letteratura il solo trucco ammissibile non è quello che non si vede ma quello che non c’è: «Scrivere non vuol dire far vedere la parola». Ancora Blanchot afferma: «Ammettiamo pure che la stanchezza renda la parola meno esatta, il pensiero meno parlante, la comunicazione più difficile: attraverso tutti questi segni, l’inesattezza propria di questo stato non raggiunge forse una specie di precisione che in fin dei conti è utile alla parola esatta proponendo qualcosa da incomunicare?» Prenderò, dunque, la stanchezza come mia regola.
Picasso ha ritenuto di doversi difendere dalla propria abilità, uno scrittore come Salinger ha lottato con il talento per tenerlo a bada (lotte che non eliminano completamente il compiacimento): veri e propri cimenti con la tecnica per mutarla in consapevolezza della propria naturalezza.
Giancarlo Pontiggia, con la sua minuziosa sagacia, in una rubrica apparsa sulla rivista letteraria Wimbledon, indaga una frase, un incipit, di Ambrose Bierce: «Una mattina di buon’ora del giugno 1872 uccisi mio padre – un atto che, a quel tempo, mi fece una profonda impressione». Pontiggia spiega che la frase poggia mirabilmente sull’aggettivo “profonda”, è un particolare decisivo, stabilisce distanza fra ciò che accadde ieri e il modo in cui lo si considera oggi: profonda allora, non altrettanto oggi, ma con un alone di ambiguità. L’aggettivo aggiunge precisione paradossale perché realistica, dice Pontiggia, ci fa capire di più sul senso di colpa evitando ogni luogo comune. L’analisi prosegue sempre più approfondita e precisa. Ma una volta terminata l’analisi, ci accorgiamo che non potremo elaborare queste informazioni per replicare l’efficacia di Bierce; di fronte a quella frase resta in me lettore una sensazione (una impressione, non una nozione dell’intelligenza): “Ah, poter recuperare l’innocenza di allora, la leggerezza con cui misi fine alla vita di mio padre; oggi, a freddo, la mia colpa mi appare solo giudiziaria, allora mi sembrò una mostruosa epifania”. Forse, a partire da questa sensazione, potrei recuperare (scrittore) la radice di quello stupore e dare vita a una nuova forma che lo esprima.
Appena comincio a far caso alla regola, alla tecnica, quella smette di funzionare. Come nel rapporto fra figura e sfondo: o mettiamo a fuoco l’una o vediamo l’altro. Glenn Gould, il geniale pianista canadese grande interprete di Bach, non amava i pianisti “pianistici”; confesso di non amare gli attori attorici, quelli che mentre recitano ti obbligano ad ammirare la loro bravura – loro stessi si osservano recitare (il compiacimento di Picasso e Salinger)! Davanti ai nostri occhi, e separati da noi, scorrono il canone, il codice, la regola, la tecnica, tutto si perde in rivoli, invece di far posto al flusso espressivo del quale dovremmo entrare a far parte – divenire parte.
La regola può valere solo come gioco, utile gioco, ma per fare sul serio bisogna ricorrere a un colpo di mano.
Quali gli ambiti letterari in cui la regola predomina? La letteratura di genere – in particolare il romanzo/racconto giallo – e la Letteratura potenziale, quella che Raymond Queneau, uno dei maggiori artefici dell’OULIPO, definisce “ingenua, artigianale, divertente”. Raffaele Aragona, promotore dell’OPLEPO (l’opificio italiano di letteratura potenziale), dichiara che il potenziale, il motore primo della letteratura è la regola, la Contrainte, la quale non è da «considerarsi in contraddizione con il concetto di ispirazione e di libertà dell’autore». Qual è l’obiettivo della Letteratura potenziale per Aragona?, di «scrivere costruendo da sé [gli oplepiani] un labirinto di regole dal quale si propongono di uscire. […] Inventare nuove strutture mostrandone il possibile sviluppo, almeno sotto l’aspetto morfologico, a prescindere, quindi – almeno inizialmente – dalla bontà del risultato, dalla sua validità estetica». Aragona chiarisce che l’ambito nel quale la Cointrante si muove con agio è la sperimentazione: indaga le potenzialità della letteratura.
Igor’ Stravinskij applica, in musica, qualcosa di simile in alcune sue partiture. Non contento delle regole armoniche novecentesche, si imbriglia di una grammatica neoclassica e scrive, fra le altre, opere quali Pulcinella, Jeu de Cartes, The Rake’s Progress, assoggettandosi a regole stringenti – quelle dell’epoca di Mozart. I risultati sono creativamente altissimi – The Rake’s Progress è fra le pagine più belle del ‘900 – ma nulla è lasciato al mero gioco stilistico; una volta assolto alla sua funzione di stimolo, la norma scompare.
OULIPO e OPLEPO ci dicono quanto necessaria sia la regola e, con altrettanta lucidità, affermano quanto essa sia insufficiente. Se pienamente riusciti sono gli Esercizi di stile di Raymond Queneau, La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, meno efficaci sembrano La disparition di Perec o i Cent mille milliards de poems di Queneau. Se Ermanno Cavazzoni, autorevole membro dell’OPLEPO, riesce a far magicamente sparire la regola, il trucco, dalle sue giocose sempre intelligenti pagine oplepiane (e non oplepiane), indispensabile appare la cointrante per altri autori della prestigiosa compagine, che finiscono per impiccarsi – volentieri – alla regola, e alla fine la mongolfiera della loro scrittura viene affossata dalla zavorra della norma.
Possiamo leggere tutto Proust? Joyce? L’Adone di Giovan Battista Marino? I miliardi di sonetti di Queneau? I duodecilioni di versi di Robert Viscusi? Potremmo leggere l’intera Biblioteca di Babele di Borges? Non possiamo leggere tutti i libri (La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri), solo qualcuno, così come saccheggiamo Proust o Joyce, così come sfogliamo, più incuriositi che coinvolti, le combinazioni di versi di Queneau e il poema infinito di Viscusi, sognando di addentrarci nell’infinita Biblioteca borgesiana.

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Comments

  • Rosita Ferrentino

    décembre 19, 2020 at 23 h 25 min
    Reply

    Bravissimo Roberto ,offri sempre spunti di riflessioni interessanti .

    • roberto lombardi
      to Rosita Ferrentino

      janvier 24, 2021 at 18 h 46 min
      Reply

      Il linguaggio in tutte le sue estensioni, e nella mia recente scoperta di un autore come Bordini, è per me motivo di continua sorpresa.

  • Ester Cherri

    décembre 14, 2020 at 17 h 06 min
    Reply

    Un articolo specialistico, ma nello stesso tempo comprensibile e piacevolissimo .

    • roberto lombardi
      to Ester Cherri

      janvier 24, 2021 at 18 h 44 min
      Reply

      Grazie; specializzarsi ad annoiare sarebbe la peggiore delle sorti per chi scrive.

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