Gli essiccatoi del tabacco del Basso veronese sono la manifestazione di una delle più importanti risorse economiche di questa provincia tra gli anni ‘20 e gli anni ‘70 del Novecento. Raccontare, quindi, la presenza della coltivazione del tabacco nel Basso veronese significa raccontare una storia che ha non solo evidenti implicazioni sociali ed economiche, ma anche interessanti risvolti insediativi sul territorio, inteso come paesaggio agrario esito della lenta stratificazione dell’attività umana.
La coltivazione e la lavorazione del tabacco dai primi anni del Novecento fino ad oggi, oltre a strutturare la vita della società agraria veronese, ha lasciato tracce e reperti che strutturano anche il territorio, lo “triangolano” in una sorta di maglia irregolare di cui gli essiccatoi del tabacco possono essere interpretati come nodi nevralgici.
Per questo vale la pena ripercorrere brevemente la storia di questi reperti, e non certo per una loro intrinseca qualità architettonica. Non siamo in presenza, cioè, di strutture che possano definirsi di “archeologia industriale”: gli essiccatoi del tabacco non presentano caratteristiche edilizie di pregio né per tipologia né per dettaglio né per originalità.
L’interesse, allora, deriva da questioni diverse: da un lato il fatto che questi edifici sono testimonianza di un pezzo della storia sociale di questo territorio, rimandano a questioni relative alle condizioni di lavoro, alla sindacalizzazione, ai diritti più o meno negati di una consistente parte della popolazione, soprattutto femminile, fino agli anni ‘60/’70 del Novecento; dall’altro, l’interesse deriva dalle caratteristiche formali di questi fabbricati che sono testimonianza di tecniche costruttive e di processi industriali ormai desueti; da ultimo suscita interesse il fatto che questi manufatti rappresentano oggi, nel paesaggio agrario, una sorta di dissonanza, una “pietra d’inciampo” nell’omogeneità dello skyline rurale dove rubano in certi casi la scena ad edifici di più alto valore architettonico, come le Ville e i Castelli.
Ma per capire il ruolo che questi edifici hanno avuto nella storia del paesaggio agrario veronese bisogna raccontare brevemente la storia del tabacco e di come la sua coltivazione si sia evoluta negli ultimi 100 anni.
La coltivazione del tabacco in Italia ha radici antiche, ma in Veneto viene introdotta intorno al 1700 nella Valle del Brenta, dove andò a costituire la maggior risorsa economica della zona fino a sostituirsi a quella del gelso. Da qui passò nel Basso veronese intorno ai primi del Novecento, quando vennero rilasciate dal Monopolio di Stato numerose “Concessioni di Manifesto”. Con l’istituto della Concessione, lo Stato autorizzava il privato, sotto rigidissimo controllo della Guardia di Finanza, alle operazioni che andavano dalla semina in semenzaio fino all’essiccazione delle foglie, alla cernita, alla classificazione ed, infine, all’imballaggio. Il Monopolio di Stato, a questo punto, acquistava dagli agricoltori l’intero raccolto annuo e lo smistava alle diverse Manifatture Tabacchi dislocate sul territorio nazionale, preposte alle lavorazioni successive e al confezionamento della sigaretta finita.
L’introduzione di questa coltivazione, fortemente caldeggiata dall’Amministrazione statale, che ne intravvedeva consistenti introiti per l’Erario, fu sostenuta con sovvenzioni per la costruzione dei fabbricati di essiccazione. Si diffuse, all’epoca degli esordi, una letteratura tecnica riguardante i “progetti tipo” di essiccatoio che prevedeva sempre, qualora le condizioni di mercato fossero cambiate, la possibile riconversione di questi ad usi alternativi, come annessi rurali, stalle, caseifici, in modo da garantire l’agricoltore dai rischi dell’introduzione della nuova coltivazione: si suggeriva di utilizzare misure di pianta e altezze utili anche per altri usi, di predisporre già le forature di prospetto, anche se poi queste dovevano essere intanto tamponate, di posizionare il fabbricato nel lotto in modo consono ad un uso diverso. Sostenuto in parte da queste prospettive, l’agricoltore veronese si convinse ad entrare nel nuovo business.
Il territorio veronese si prestava alla coltivazione di diversi tipi di tabacco: il tipo Kentucky, i tabacchi chiari come il Burley e il Maryland, e i tabacchi scuri come il Nostrano del Brenta, il Badisher Geudertheimer, l’Havanna.
Il Kentucky era adatto soprattutto per fascia di rivestimento del sigaro, ma anche per confezionare le “Nazionali” e le “Popolari”, sigarette assai diffuse e assolutamente “autarchiche”. La lavorazione del Kentucky prevedeva, dopo la fase della raccolta, l’essiccazione tramite “cura a fuoco”: in appositi locali annessi agli essiccatoi o in spiazzi all’aperto le foglie venivano dapprima infilzate in bastoncini ordinati su rastrelliere disposte su più piani, oppure cucite su fili (detti “filze”) da appendersi ad un impalcato posto nella parte più alta dell’essiccatoio. Da qui si passava ai locali di essiccazione dove sul pavimento in terra battuta venivano approntate braci soffocate con segatura, che creavano un clima secco/umido adatto all’essiccazione delle foglie. Tali manufatti, per lo più standardizzati, presentavano una struttura portante in laterizio pieno, tamponamenti in cotto e copertura con struttura in legno e manto in coppi. Le piccole aperture, oltre agli ampi portoni di accesso, erano posizionate nella parte alta del prospetto, e dovevano servire per la fuoriuscita controllata dell’umidità emessa dalle foglie in fase di asciugatura.
I tabacchi scuri, coltivati più a sud, ma anche un tipo di tabacco chiaro come il Burley, necessitavano invece, dopo il raccolto, di una “cura ad aria naturale”: allestiti gli stendaggi in modo simile a quello del Kentucky, le foglie venivano messe ad asciugare in fabbricati aperti, costituiti da ossature a pilastri in cotto e travi in cemento armato, con struttura di copertura in legno e manto in coppi. I tamponamenti erano semplici incannicciati di arelle utili a portare ombra e a lasciar circolare l’aria naturale. Spesso questo tipo di fabbricati viene realizzato rapidamente per rispondere ad esigenze momentanee di produzione, utilizzando materiali più poveri: strutture a traliccio in ferro, parziali tamponamenti perimetrali in legno o lamiera e copertura in lamiera, o addirittura con struttura e tamponamenti in legno. E’ evidente come tali soluzioni abbiano garantito una vita più breve all’impianto, rispetto alle testimonianze ancora presenti di essiccatoi in muratura.
In entrambe i tipi di lavorazione, la manodopera impiegata era quasi esclusivamente femminile, salvo alcuni “lavori di fatica” svolti da manovalanza maschile. La scelta di manodopera femminile, che pian piano assume caratteristiche di alta specializzazione, è prettamente economica: a parità di qualifica, le tariffe salariali applicate alle donne erano assai più basse rispetto a quelle degli uomini.
Dal secondo dopoguerra, almeno fino ai primi anni cinquanta, a queste motivazioni si aggiunse la bassa sindacalizzazione femminile. Erano le famiglie mezzadrili e quelle bracciantili a garantire l’apporto di manodopera femminile a basso costo.
Queste tecniche rimangono in vigore fino alla fine degli anni ‘60, quando viene meno l’istituto del Monopolio e i coltivatori, per lo più riuniti in cooperative, devono far fronte ad un mercato ormai liberalizzato e di forte concorrenza. Nel veronese viene allora introdotta, parallelamente o in alternativa alla coltivazione del Kentucky e dei Tabacchi scuri, la coltivazione del tabacco Virginia Bright non aromatico: si tratta di una qualità di maggior pregio ma che, senza la cimatura delle efflorescenze, risulta di scarso contenuto nicotinico, e quindi adatta per “riempimento” della sigaretta “bionda” di tipo americano, insieme ad altre varietà di maggior qualità.
Per questo tipo di tabacco, in concomitanza con l’evolversi della tecnica industriale, vengono modificate anche le strutture in cui avviene l’essiccazione. Si passa dalla cura a fuoco o a aria alla “cura a flusso d’aria calda”: i fabbricati, suddivisi in celle di minor ampiezza ma di notevole altezza, vengono attrezzati con un sistema di tubi occultati sotto un pavimento in grigliato di legno in cui circola acqua calda prodotta da una caldaia, senza far venire direttamente a contatto le foglie con la fonte di calore. Nei locali così predisposti viene creata una circolazione di aria naturale che entrando dall’esterno tramite bocche a pavimento viene aspirata verso l’alto da aperture poste lungo un cupolino al colmo della copertura che funge da camino tirante. Ogni impianto di questo tipo presenta 10-15 celle identiche, ciascuna con un’unica entrata, nessuna apertura verso l’esterno se non quella in copertura, e una silhouette assolutamente riconoscibile.
Fin dagli anni ’70, a seguito del calo dei consumi, delle stringenti politiche antifumo e dell’ incalzante concorrenza dei nuovi mercati internazionali, gli imprenditori agricoli veronesi introducono importanti innovazioni: da un lato la coltivazione del tabacco Virginia Bright aromatico, con cimatura delle efflorescenze e quindi alto valore nicotinico, di alta qualità e perciò fortemente competitivo; dall’altro, l’uso di moderni essiccatoi a cella metallica denominati “Bulk curing”: si tratta, e siamo ormai ai nostri giorni, di una sorta di forno industriale dove le foglie non necessitano più né di selezione preventiva, né di infilzatura e dove la massa fogliare viene introdotta direttamente nell’essiccatoio in speciali cassoni carrellati, ed estratta a ciclo terminato pronta per la vendita.
Di tutto questo patrimonio edilizio, oltre che storico-culturale, a noi non restano che una serie di edifici fatiscenti di grande fascino visivo e di potente suggestione emotiva, che ci ispirano una lettura alternativa alla ovvia prospettiva del loro recupero e trasformazione. Oggi questi edifici ci stimolano ad una loro interpretazione come involontari “interventi sul paesaggio”, piuttosto che come “interventi nel paesaggio”, rimandando più al tema degli “Earth works”, o ad espressioni di “Land art” di altissimo valore poetico. Ci sembra, insomma, recuperando l’immagine della maglia irregolare che triangola questo territorio, che questi edifici, in modo assolutamente inconsapevole, rappresentino proprio nel loro attuale stato di degrado, un’esperienza artistica esemplare di alterazione del paesaggio.